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Questo semplicemente perché noi darkovani mostriamo non dico resistenza, ma indifferenza di fronte alle armi e ai congegni meccanici che i terrestri, sui loro pianeti, usano a ogni piè sospinto. Perché preferiamo viaggiare a cavallo, sul nostro pianeta, anziché perdere tempo e denaro a costruire autostrade. E perché Darkover, rispettando l'antico Patto del Guardiano Varzil, che proibisce le armi che colpiscono a distanza, non vuole un ritorno all'epoca delle guerre e degli stermini compiuti con armi da vigliacchi.

La legge sancita dal Patto vale per tutto Darkover, da Thendara agli Hellers e alle Città Aride: chi vuole uccidere un'altra persona deve rischiare a sua volta la morte. Sulla Terra si ironizza sulla nostra “cultura del duello”, e sul sistema feudale di Darkover — non so dire le volte che ho dovuto ascoltare quel tipo di discorsi: ogni volta che il discorso cade su Darkover, all'incirca — ma qual è più civile: un mondo dove chi trasgredisce deve affrontare di persona l'uomo che ha offeso, spada contro spada, o uno dove puoi uccidere mille sconosciuti, vecchi, donne e bambini, standotene al sicuro nella tua cabina e limitandoti a schiacciare un bottone?

Darkover non è il solo pianeta che sia stato colonizzato durante la prima, caotica fase del volo interstellare e che poi abbia perso i contatti con la Terra, ma è l'unico che abbia mantenuto la sua identità, senza lasciarsi sopraffare dalle mille seduzioni dell'Impero Terrestre.

Sono stato su altri pianeti “riscoperti” e ho visto che cosa è successo laggiù, dopo che i terrestri vi sono arrivati con la proposta di farli entrare in una civiltà capace di viaggiare tra le stelle. Non conquistano i mondi con la forza e con le armi: i terrestri possono permettersi di attendere, perché sanno che la cultura originaria del pianeta, prima o poi, finirà per crollare sotto l'impatto.

A quel punto, il pianeta supplicherà di entrare nell'Impero, e nel giro di pochi decenni diventerà identico a tutti gli altri: una minuscola rotellina del vasto Impero, burocratico e ipercentralizzato, che divora tutti i mondi che incontra.

La cultura di Darkover, però, non era crollata.

Con la coda dell'occhio, vidi che un uomo, qualche posto più avanti, si alzava e veniva nella mia direzione; pensai che volesse spostarsi in fondo alla cabina, ma quando arrivò alla mia altezza si fermò e si sedette accanto a me. Senza chiedere, notai, se il posto era libero.

«Comyn?» chiese, con il tono di chi conosce già la risposta.

Lo guardai: era alto e magro, con i capelli tra il rosso e il biondo. Un darkovano dei monti del Nord. Intanto il suosguardo si soffermava, ai limiti della maleducazione, sulla mia cicatrice, sulla manica vuota.

Poi, evidentemente soddisfatto di quel che aveva visto, l'uomo annuì tra sé.

«Ne avevo l'impressione», disse. «Sei il ragazzo che è stato coinvolto in quella vecchia faccenda di Sharra.»

Involontariamente, arrossii. Avevo impiegato sei anni a scordarmi della rivolta di Sharra e di Marjorie Scott. Ne portavo le cicatrici sulla pelle, e le avrei portate per tutta la vita. Chi diavolo era, quell'uomo, per rinfacciarmi quelle antiche vicende?

«Anche se lo ero», risposi seccamente, «adesso è acqua passata. E non mi ricordo affatto di voi», aggiunsi, calcando sul voi, tanto per tenere le distanze. Forse era anche lui un Comyn, ma che si presentasse!

«E tu saresti un Alton!» mi disse, in tono ironico.

«Nonostante tutte le storie che si raccontano per far paura ai bambini», ribattei, nello stesso tono, «gli Alton non passano la giornata a leggere nella mente delle persone. Per prima cosa, è un'attività che stanca. Per seconda cosa, in genere la mente delle persone è piena d'immondizia. E per terza cosa», aggiunsi, «non ce n'è mai fregato niente, di quello che pensano gli altri.»

L'uomo scoppiò a ridere.

«Oh», disse, «non mi aspettavo che ti ricordassi di me. Quando ti ho visto l'ultima volta, eri sotto sedativo, e deliravi. Ho detto a tuo padre che ben difficilmente saresti riuscito a salvare la mano, e ora, con dispiacere, vedo che avevo ragione.»

Il “con dispiacere” era quel che un saggista definirebbe un artificio letterario. Non mi sembrava affatto dispiaciuto.

«Sono Dyan Ardais», si presentò.

Non appena udii il nome, mi parve di ricordarmi di lui: un signorotto degli Hellers, con il castello ai confini del mondo civile. Nonostante la comune appartenenza alle Sette Famiglie e certi vecchi matrimoni tra le due casate, negli ultimi tempi non c'era stata molta simpatia, tra gli Alton e gli Ardais.

«E viaggi da solo, giovane Alton?» proseguì l'uomo. «Dov'è tuo padre?»

«È morto su Vainwal», risposi, concisamente.

L'uomo abbassò la voce.

«Allora, ti do il benvenuto, Comyn Alton», disse.

Il titolo ufficiale con cui mi salutò mi colmò di stupore, perché non mi era mai venuto in mente, sugli altri pianeti, che adesso il capo della Famiglia ero io. Dovette notare la mia sorpresa, perché, per non mettermi in imbarazzo, tese il collo verso uno dei finestrini. Il cielo era ormai chiaro.

«Siamo quasi a Thendara», mi annunciò. «Vieni con me?»

«Grazie, ma dovrebbero essere venuti a prendermi», risposi. Non era vero, ma non volevo prolungare quell'incontro casuale.

Dyan Ardais, comunque, non parve offeso dal rifiuto.

«Allora, ci vedremo in Consiglio», disse, con mi cenno del capo.

Poi si alzò, con eleganza, e tornò a guardarmi con aria indifferente.

«E proteggi con attenzione», mi disse, «le tue proprietà, Comyn Alton. Ci sarà indubbiamente qualcuno che vorrà recuperare la matrice di Sharra.»

Mi girò le spalle e tornò al suo posto, mentre io mi lasciavo scivolare nella poltroncina, inorridito.

Maledizione! Doveva avermi letto nella mente mentre io mi baloccavo con le conversazioni dei due terrestri! Altrimenti, come aveva fatto a sapere? Quel sudicio montanaro, leggermi la mente di straforo! Ancora pieno di procalamina com'ero, doveva essere penetrato nelle mie barriere mentali senza che me ne accorgessi. Che uno dei Comyn potesse davvero abbassarsi a tanto?

Lo guardai con ira e feci per alzarmi, ma dovetti sedermi perché l'aereo cominciava la manovra di atterraggio. Lampeggiò l'insegna che invitava ad allacciarsi le cinture; meccanicamente chiusi la mia; ero agitatissimo.

Quell'uomo mi aveva costretto a ricordarmi del mio passato. Mi aveva obbligato a ricordare perché ero stato costretto a lasciare Darkover, sei anni prima, sfigurato, sconfitto e segnato per tutta la vita. Sentii di nuovo il dolore di ferite che, con il tempo e il silenzio, si erano quasi rimarginate. Inoltre, quell'uomo aveva pronunciato il nome di Sharra.

Ero un meticcio, un sangue misto, entrato a far parte dei Comyn soltanto perché mio padre non aveva figli darkovani, ed ero diventato una facile preda per i ribelli e i malcontenti che si erano riuniti sotto il vessillo di Sharra.

Sharra. La leggenda diceva che era una dea trasformatasi in un demonio. Veniva raffigurata come una giovane donna, legata da catene d'oro, e la sua immagine compariva quando la si evocava con il fuoco. In passato, la dea veniva adorata dal “popolo delle forge”, un gruppo di uomini che, agli albori della storia umana su Darkover, si erano rifugiati in una zona degli Hellers ricca di ferro ed erano sempre vissuti in relativo isolamento, scambiando armi e oggetti metallici con le merci delle Pianure.

Negli ultimi secoli, comunque, i Comyn avevano cercato di scalzare il culto di Sharra, per timore che il suo fuoco distruggesse le foreste e venisse usato come arma proibita. Io, però, avevo visto quei fuochi, e avevo usato i miei poteri per evocare da essi il potere di Sharra.