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«Per tutti gli inferni di Zandru!» esclamai. «Non puoi essere Marjus!»

«Davvero non posso esserlo?» rispose lui.

Stentavo a crederlo. Mio fratello Marjus, che con la sua nascita aveva causato la morte della nostra madre terrestre… possibile che mi fossi scordato di mio fratello?

Mi sorrideva timidamente, e io mi tranquillizzai.

«Scusa, Marjus», dissi. «Ma eri tanto giovane, e sei così cambiato…»

«Possiamo parlare più tardi», si affrettò a dire. «Devi ancora passare la dogana e svolgere le altre formalità, ma volevo salutarti subito. Che hai, Lew? Hai un'aria strana. Stai male?»

Per qualche momento mi appoggiai al suo braccio, finché non mi fu passato il giramento di testa.

«Colpa della procalamina», dissi, e nel vedere la sua espressione perplessa, spiegai: «Te ne fanno un'iniezione, sull'astronave, per superare lo stress dell'assenza di gravità. Occorrono alcune ore perché l'effetto scompaia, e io sono un po' allergico a quella droga.»

Notai che mi guardava di sguincio, cercando di non farsi notare, e aggrottai la fronte.

«Ho davvero un aspetto così brutto?» chiesi. «D'accordo, non mi avevi più visto, dopo che avevo perso la mano e mi ero rovinato la faccia. Bene, dammi una buona occhiata.»

Distolse lo sguardo dalla mia faccia, e io gli strinsi il braccio.

«Non m'importa, anche se mi fissi», gli dissi, più gentilmente, «ma non voglio che tu mi guardi di straforo quando pensi che non me ne accorga, perché me ne accorgo sempre. Chiaro?»

Sorrise e mi osservò con franchezza per alcuni istanti, poi sorrise.

«Non sei bello, ma non eri una grande bellezza neppure prima, se ricordo bene. Andiamo?»

Diedi un'occhiata attorno, osservai il grattacielo del quartier generale e gli alti edifici della Città Commerciale per vedere se notassi qualche cambiamento. Dietro le costruzioni dei terrestri s'innalzava il profilo seghettato delle montagne e, alta al di sopra della pianura, si scorgeva la grande macchia chiara del Castello dei Comyn, con accanto il bianco cilindro della Torre.

«I Comyn si sono già riuniti a Thendara?» chiesi.

Marjus scosse la testa. Non riuscivo ancora ad abituarmi all'idea che fosse mio fratello. Non mi sembrava del tutto a posto.

«No», rispose. «Si riuniscono… ci riuniamo nella Città Nascosta. Lew, hai portato una pistola dalla Terra?»

«Diavolo, no», risposi. «Che me ne faccio di una pistola? E poi si può farle entrare solamente di contrabbando.»

«Allora non sei armato?»

Scossi la testa.

«No», spiegai. «Sulla maggior parte dei pianeti dell'Impero non si possono portare armi, e ho perso l'abitudine. Perché me lo chiedi?»

Marjus aggrottò la fronte.

«Sono riuscito a procurarmene una, l'anno scorso», disse. «L'ho pagata il quadruplo del suo prezzo, e porta il marchio del contrabbando. Pensavo che… ehi, ma non è il tuo nome, quello che stanno chiamando?»

Lo era davvero. Mi avviai verso i banchi della dogana passeggeri, seguito a poca distanza da Marjus. Lui scosse la testa al funzionario che gli rivolgeva un'occhiata interrogativa, indicò me e oltrepassò il cancello. Il mio bagaglio era sul nastro convogliatore, davanti al doganiere. L'uomo mi guardò senza molto interesse.

«Lewis Alton-Kennard-Montray?» mi chiese. «Atterrato a Port Chicago sulla Croce del Sud? Tecnico delle matrici?»

Gli rivolsi un cenno affermativo e prelevai di tasca il tesserino di plastica che mi qualificava come tecnico delle matrici autorizzato dalle autorità portuali di Thendara a svolgere quell'attività entro la Città Commerciale.

«Dobbiamo controllare negli archivi», disse il funzionario, ritirandolo, «e aggiornare l'autorizzazione. Occorreranno almeno due ore. Ritirerete il tesserino direttamente dal Legato.»

Prese un modulo prestampato e cominciò a leggere.

«“Affermate solennemente che, per quanto possa essere a vostra conoscenza, non avete tra le vostre proprietà armi a energia o a propulsione, disintegratori e fulminatori, isotopi atomici, farmaci narcotici, sostanze tossiche o incendiarie?”»

Misi la croce sul quadratino del “no” e firmai il modulo. L'uomo passò il mio bagaglio sotto il fluoroscopio: come prevedevo, lo schermo non s'illuminò.

Tutto il materiale citato sul modulo era di fabbricazione imperiale: in base agli accordi con cui gli Hastur avevano concesso ai terrestri l'area su cui sorgeva lo spazioporto, i terrestri si erano impegnati a non lasciar entrare nel pianeta quel genere di materiale, e comunque a non portarlo all'esterno della Città Commerciale. Su quel materiale, che sul nostro pianeta è di contrabbando, prima di poter circolare nella Città Commerciale viene stampigliato un micro-codice indelebile, con innocui inchiostri magnetici, che fa scattare le spie poste alle uscite dalla Città.

Attualmente lo spazioporto era spostato in una zona disabitata di Darkover e le piste di Thendara erano riservate agli aerei navetta. Comunque, gli aerei e il nuovo spazioporto godevano dello stesso stato di extraterritorialità ed erano a tutti gli effetti suolo imperiale.

«Qualcosa da dichiarare?» chiese intanto il doganiere.

«Un paio di binocoli di fabbricazione terrestre, una macchina fotografica terrestre e mezza bottiglia di firi acquistata a Vainwal», riferii.

«Fate vedere.»

Gli aprii la valigia e qualche istante più tardi, quando l'uomo cominciò a controllare il contenuto, non potei fare a meno di irrigidirmi. Era giunto il momento da me temuto.

Avrei dovuto cercare di corromperlo. Ma avrei corso il rischio — se si trattava di un uomo onesto — di prendere una multa e di finire sulla lista nera. Non potevo permettermelo.

Il doganiere passò sotto il suo apparecchio le scatole della macchina fotografica e dei binocoli. Gli strumenti ottici di fabbricazione terrestre sono oggetti di lusso e in genere sono fortemente tassati.

«La tassa d'importazione è di dieci reis», disse l'uomo, sollevando gli abiti contenuti nella valigia. «Se il firi è meno di dieci once, è in franchigia. Che cos'è questo?»

Quando la sua mano la toccò, penso di essermi morso la lingua. Mi parve che una mano mi afferrasse il cuore e me lo stringesse.

«Non toccatela!» esclamai, con un nodo alla gola.

«Che diavolo…?» mormorò l'uomo, estraendo l'oggetto. Fu come se avesse preso un chiodo e me l'avesse passato su un nervo scoperto. Srotolò il tessuto in cui era avvolto. «Armi di contrabbando, eh? Credevate di… maledizione, è una spada

Non riuscivo a respirare. La grossa gemma azzurra incastonata nel pomo pareva brillare solo per me, e la mano del doganiere, sopra di essa, mi dava un dolore insopportabile.

«È… un'eredità di famiglia», mormorai.

Mi guardò con stupore.

«Be', non la stavo mica rovinando. Volevo soltanto controllare che non ci fosse un lanciaraggi di contrabbando, o qualcosa del genere.»

La avvolse nuovamente nel suo tessuto di seta, e io ripresi a respirare. Sollevò la bottìglia di costoso cognac di Vainwal e ne valutò il contenuto, a occhio.

«Sette once», disse. «Firmi una dichiarazione che lo importa per consumo personale e non per rivenderlo, e non pagherà tassa.»

Firmai anche il nuovo modulo. Il doganiere chiuse la valigia e io mi allontanai con il mio bagaglio.

Il primo ostacolo era stato superato, senza troppe difficoltà. Questa volta.

Raggiunsi Marjus e insieme prendemmo una vettura.

CAPITOLO 2

IL LEGATO TERRESTRE

L'Hotel dello Spazioporto era caro, lussuoso e arredato con cattivo gusto. A me non era mai piaciuto, ma laggiù non si rischiava di imbattersi in qualche Comyn, e questa era la cosa che m'importava maggiormente. I camerieri ci accompagnarono in due delle scatole di cemento che i terrestri chiamano “stanze”.