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Io mi ero abituato a esse sulla Terra e su Vainwal, e ormai non mi davano più fastidio. Ma nel chiudere la porta mi venne in mente un particolare, e mi girai verso Marjus. «Per tutti gli inferni di Zandru, me n'ero dimenticato! Questa stanza ti dà fastidio?»

Sapevo che le porte, le pareti e le serrature potevano fare uno sgradevole effetto su un darkovano. Anch'io avevo conosciuto quella terribile, soffocante claustrofobia, nei primi anni trascorsi sulla Terra. È una delle cose che distingue maggiormente i darkovani dai terrestri; le stanze dei darkovani avevano le pareti traslucide, di un marmo simile all'alabastro, e tra un ambiente e l'altro c'erano tende, pannelli sottili o vetri fosforescenti.

Tuttavia, Marjus pareva del tutto a proprio agio e s'era subito sdraiato su un mobile dalla forma così bislacca che avrei avuto difficoltà a dire se era una sedia o un letto. Alzai le spalle. Se avevo imparato a vincere la claustrofobia, probabilmente l'aveva imparato anche lui.

Mi lavai, mi feci la barba e feci un pacco dei vestiti terrestri che avevo indossato sull'astronave. Quegli abiti erano comodi, ma non potevo presentarmi al Consiglio dei Comyn vestito da terrestre.

Perciò mi infilai calzoni di pelle scamosciata, stivaletti dal tacco basso, giubbotto di seta rossa, che mi allacciai con una mano sola, facendo forse eccessivamente sfoggio della mia abilità perché ero ancora un po' troppo sensibile, quando si trattava dei miei handicap. Su tutto, poi, contavo di infilarmi un corto mantello con gli stemmi degli Alton, che nascondeva egregiamente l'assenza della mano. Lo tolsi dalla valigia e, nel guardarlo, tirai un respiro di sollievo, perché mi pareva di avere cambiato pelle.

Marjus, intanto, si era alzato e aveva cominciato a girare per la stanza. C'era ancora qualcosa, in lui, che non mi convinceva del tutto. Ricordavo vagamente la sua voce e il suo mondo di comportarsi, ma non sentivo quel forte rapporto di intimità che c'è sempre tra i lettori di pensiero appartenenti alla stessa famiglia. Mi chiesi se anche lui non fosse irrequieto perché sentiva la stessa mancanza. Forse era l'effetto della droga.

Mi stesi per qualche momento sul letto, chiusi gli occhi e cercai di dormire, ma il silenzio mi fece uno strano effetto e mi impedì di riposare. Dopo otto giorni nello spazio, ormai mi ero abituato all'onnipresente ronzio dei generatori, che faceva vibrare tutta l'astronave e che riusciva a superare anche l'effetto della droga.

Alla fine, fui costretto ad alzarmi e, per trovarmi un'occupazione, andai a prendere la mia sacca da viaggio.

«Mi fai un favore?» gli chiesi.

«Certo», rispose Marjus.

«Non riesco a concentrarmi, e prima, alla dogana, quando ho dovuto farlo, mi è venuto il mal di testa. Sei in grado di aprire una serratura a matrice?»

«Se non è troppo complicata.»

Era semplicissima: anche un non telepatico sarebbe stato in grado di accordare la propria mente alla semplice configurazione psicocinetica trasmessa dalla gemma matrice che teneva chiusa la serratura.

«È semplice, ma è regolata su di me. Sfiorami la mente, e ti darò la sequenza.»

Era un tipo di richiesta che non avrei mai rivolto a un estraneo — conoscendo la mia sequenza personale, qualsiasi buon operatore di matrici avrebbe potuto sapere immediatamente dove mi trovavo, spiare i miei discorsi e la mia attività — ma tra parenti stretti era abbastanza comune. Marjus, però, mi guardò con terrore.

Io lo fissai, inarcando le sopracciglia, poi capii e sorrisi. In fondo, dopo tanti anni di separazione, tra noi si era persa ogni confidenza. Quando avevo lasciato Darkover, lui era un ragazzino: adesso dovevo apparirgli come un estraneo, e tra estranei si evita accuratamente di entrare in contatto mentale.

«Già», dissi. «Scusa. Chiudi la mente, e ti manderò la sequenza.»

Gli inviai un breve messaggio telepatico, trasmettendogli sotto forma di immagine la configurazione energetica della serratura. La sua mente era così ermeticamente chiusa che, per qualche momento, mi parve quella di un estraneo, se non addirittura quella di un non telepatico. Quella mancanza di reazione mi imbarazzò: mi parve di essere un intruso.

Dopotutto, pensai, non ero certo che Marjus fosse un telepatico. Di solito il Potere mentale — il laran, come è chiamato su Darkover fin dai tempi più antichi — non compare prima dell'adolescenza, e lui era un bambino, quando l'avevo visto l'ultima volta. Come me, era per metà terrestre, e anche se in genere, nei figli di matrimoni misti, la caratteristica darkovana finisce per dominare, non avevo alcuna prova che avesse ereditato da nostro padre quella caratteristica.

Prese la sacca, la appoggiò sul letto e, senza difficoltà, fece scattare la chiusura. Poi si spostò per lasciarmi sedere. Io presi uno dei pacchetti e glielo porsi.

«Non è granché, come regalo», gli dissi, «ma, come vedi, non mi sono dimenticato di te.»

Lui aprì la scatola, con esitazione, e guardò il binocolo, luccicante e alieno, contenuto all'interno. Lo prese in mano con imbarazzo, e lo infilò di nuovo nel contenitore, senza fare commenti.

Io rimasi alquanto seccato da quella mancanza di reazioni. Non mi ero aspettato ringraziamenti sperticati o incredibili proteste di gratitudine eterna, ma almeno avrebbe potuto dirmi grazie. E non mi aveva chiesto di nostro padre.

«I terrestri sono imbattibili, quando si tratta di strumenti ottici», commentò, dopo qualche istante.

«Certo, sanno come si molano le lenti. E come si costruiscono le astronavi. Tolto quello, però, non sanno fare altro.»

«Sanno costruire le armi», disse, ma io lasciai cadere quel discorso.

«Ti faccio vedere la mia macchina fotografica», dissi. «Però, non ti dirò il prezzo che l'ho pagata, perché mi crederesti impazzito.»

Gli mostrai gli oggetti che avevo portato con me dai miei viaggi, e Marjus si sedette sul letto e li osservò tutti, rivolgendomi parecchie domande, con diffidenza. Chiaramente, quel materiale gli interessava, ma per qualche motivo cercava di nascondere il proprio interesse. Perché lo faceva?

Alla fine arrivai anche al pacco lungo e stretto contenente la spada. E, quando lo toccai, sentii un'emozione che conoscevo bene: piacere e repulsione insieme…

Finché ero lontano da Darkover, la gemma era rimasta spenta. Dormiente. Ma adesso la vicinanza di quella pietra matrice così potente, nascosta nell'impugnatura della spada antica, mi faceva tremare. Sugli altri pianeti era un pezzo di cristallo inerte. Su Darkover era viva, ed emanava un calore strano, simile a quello di un corpo animato.

In genere, le matrici sono innocue. Sono pezzetti di cristallo — o complesse reti di fili di metallo, con incastonate tante piccole pietre: gli “schermi” usati nelle Torri — che reagiscono alle lunghezze d'onda del pensiero e che trasformano l'energia elettrica del cervello in altre forme di energia: calore, magnetismo, energia molecolare di legame.

Nella normale meccanica delle matrici — e la meccanica delle matrici, qualunque cosa ne pensino i terrestri, è una scienza esatta, e tutti possono impararla — si sfrutta solo la loro capacità telecinetica (la capacità di muovere gli oggetti senza toccarli) senza ricorrere alla telepatia. Tutti sono capaci di aprire un lucchetto a matrice, ma, naturalmente, solo i telepatici sanno arrivare ai vertici della psicocinesi, come estrarre i metalli dalla terra, trasportare gli oggetti a distanza, agire a livello molecolare, cambiando la natura chimica e fisica degli oggetti, come per esempio trasformare in diamante un pezzo di grafite. Questo perché i telepatici possono leggere nella mente di un altro telepatico la particolare configurazione mentale occorrente.

La matrice Sharra, però, era qualcosa di assai più sofisticato: matrici di quella grandezza hanno una potenza pari a quella degli schermi, ma, essendo un singolo blocco di cristallo, hanno una risposta più unitaria. Inoltre, la carica di energia mentale che aveva accumulato nei secoli le dava una sorta di sua personalità. Reagiva alla vicinanza di un lettore della mente e si sintonizzava sui suoi centri nervosi della telepatia, fino a entrare in risonanza con tutto il suo essere: corpo e cervello.