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Leigh Brackett

La spada di Rhiannon

Capitolo I

LA PORTA DELL’INFINITO

Matt Carse si accorse di essere seguito, subito dopo avere lasciato la casa di Madam Kan. Le risate delle piccole donne brune erano ancora nelle sue orecchie, risuonavano come un’eco non del tutto spenta, e i fumi dei thil gli offuscavano la vista come una calda, dolce foschia… ma non gli celarono il mormorio dei piedi calzati di sandali che lo seguivano nella fredda notte marziana.

Silenziosamente, Carse allentò la fibbia della fondina, per essere pronto a estrarre la pistola protonica, ma non fece nulla per far perdere le tracce a colui che lo seguiva. Non rallentò né affrettò il passo, mentre attraversava Jekkara.

La Città Vecchia, pensò. Sarà quello il posto più adatto. Qui intorno c’è troppa gente.

Perché Jekkara non dormiva, malgrado l’ora tarda. Le città sul Canale Inferiore non dormono mai, perché sono fuori dalla legge, e il tempo non significa nulla per esse. A Jekkara e a Valkis e a Barrakesh la notte è soltanto la parte più oscura del giorno.

Carse camminava lungo l’antico canale, pieno di acqua cupa e immobile, scavato nel fondo del mare morto. Vedeva ondeggiare le fiamme delle torce che il vento secco non riusciva mai a spegnere, e ascoltava la musica singhiozzante delle arpe che non tacevano mai. Uomini magri e slanciati, donne snelle e asciutte, gli passavano accanto nelle, strade buie, silenziosi come gatti, tranne che per il tintinnio e il brusio lieve delle campanelle che le donne portavano come ornamento, un suono delicato come la pioggia, un distillato di tutta la dolcissima crudeltà di quel mondo.

Nessuno prestava attenzione a Carse, benché egli fosse chiaramente un terrestre, malgrado il suo abbigliamento marziano, e benché di solito la vita di un terrestre valga assai meno della luce di una candela spenta, nelle città dei Canali Inferiori. Perché Carse era uno di loro. Gli uomini di Jekkara, di Valkis e Barrakesh costituiscono l’aristocrazia della malavita, e ammirano l’abilità, rispettano il sapere, e riconoscono un gentiluomo quando ne incontrano uno.

Per questo Matthew Carse, già membro della Società Interplanetaria di Archeologia, già assistente alla cattedra di Antichità Marziane a Kahora, vissuto su Marte per trenta dei suoi trentacinque anni, era stato ammesso in quella ben più ristretta ed esigente società di ladri, e aveva pronunciato con loro il giuramento di amicizia che non si sarebbe mai potuto infrangere.

Eppure adesso, attraverso le strade di Jekkara, uno degli «amici» di Carse lo stava pedinando, con tutta l’astuzia di un gatto delle sabbie. Egli si domandò per un momento se il Controllo di Polizia Terrestre non avesse per caso mandato un agente alla sua ricerca, ma scartò immediatamente quella possibilità. A Jekkara non potevano esistere degli agenti di nessun corpo di polizia. No, doveva trattarsi di qualche abitante dei Canali Inferiori, che lo seguiva per qualche suo affare personale.

Carse si allontanò dal canale, voltando la schiena al letto del mare morto, dirigendosi verso quello che un tempo era stato l’entroterra. Il terreno s’innalzava bruscamente in erti dirupi, antiche colline corrose e sgretolate dal tempo e dall’eterno vento. Là riposava cupa la Città Vecchia, antica fortezza dei Re del Mare di Jekkara, spogliata da tempo immemorabile della sua gloria dal lento, inesorabile ritirarsi del mare.

La Città Nuova di Jekkara, la città viva che si trovava più in basso, quasi sulla riva del canale, era stata già antica quando Ur dei Caldei era stato soltanto un villaggio giovane e primitivo. La Vecchia Jekkara, coi suoi moli di pietra e di marmo ancora in piedi nel porto asciutto e coperto di polvere, era antica, inconcepibilmente antica, al di là di quanto il pensiero terrestre potesse interpretare quella parola. Perfino Carse, che su di essa sapeva più cose di qualunque altro uomo vivente, provava sempre un timore reverenziale a questo pensiero.

Aveva deciso di seguire quella strada, ora, perché era completamente morta e deserta, e là un uomo avrebbe potuto essere in perfetta solitudine, se avesse voluto parlare condifenzialmente a un amico.

Le case vuote si aprivano alla notte. Il tempo e il vento impetuoso avevano sgretolato gli angoli e gli stipiti delle porte, avevano steso sul paesaggio un velo di uniformità e di silenzio, trasformando la Città Vecchia in una landa confusa e stanca degli innumerevoli anni di decano, le piccole lune basse creavano un disegno fiabesco d’ombre e luci contrastanti tra le rovine. Senza alcuno sforzo, l’alto terrestre avvolto nel lungo, nero mantello, parve fondersi con le ombre, e scomparve.

Rannicchiato al riparo di un muro, egli ascoltava il rumore dei passi dell’uomo che lo seguiva. Il rumore si fece più forte, più affrettato, rallentò indeciso, e poi fu di nuovo più veloce. I passi risuonarono davanti a lui, l’oltrepassarono, e d’un tratto Carse si mosse, con un lungo balzo felino, lasciò il riparo del muro e fu sulla strada, e un piccolo corpo magro si dibatté freneticamente tra le braccia del terrestre, miagolò di paura, cercando di scostarsi dal gelido contatto della pistola protonica contro il suo fianco.

«No!» piagnucolò. «No! Sono disarmato. Non intendo farti alcun male. Voglio solo parlarti.» Anche nella paura, una nota di astuzia e di calcolo parve insinuarsi nella sua voce. «Ho un dono per te.»

Carse si assicurò che l’uomo fosse veramente disarmato, e poi allentò la stretta. Poteva vedere distintamente il marziano, nel chiarore soffuso delle lune… un ladruncolo di poco conto, a giudicare dal gonnellino consunto, e dalla mancanza di ornamenti.

La feccia e i rifiuti dei Canali Inferiori producevano simili uomini, che erano fratelli dei vermi dal pungiglione avvelenato, nati dai sedimenti melmosi del canale, pronti a uccidere furtivamente, rimanendo celati nella polvere. Carse non ripose la sua pistola.

«Avanti,» disse. «Parla!»

«Prima di tutto,» disse il marziano, «Io sono Penkawr di Barrakesh. Forse hai sentito parlare di me.» Parve gonfiarsi come un gallo, nell’udire il suono del proprio nome pronunciato dalla sua voce.

«No,» disse Carse. «Non ho mai sentito parlare di te.»

Il suo tono era duro, secco come uno schiaffo in pieno viso. Penkawr tentò un sorriso, e sul suo viso parve un ringhio di delusione.

«Non ha importanza. Io, invece, ho sentito parlare di te, Carse. Come t’ho detto, ho un dono per te… un dono rarissimo e di grande valore.»

«Un dono così raro e prezioso, che hai dovuto seguirmi nell’ombra per parlarmene, perfino a Jekkara.» Carse fissò Penkawr, duramente, cercando di scandagliarne la doppiezza. «Ebbene, di che si tratta?»

«Vieni, e te lo farò vedere.»

«Dove si trova?»

«Nascosto. Ben nascosto, lassù, vicino ai moli del palazzo.»

Carse annui.

«Qualcosa di troppo raro e prezioso per metterlo in mostra, perfino al mercato dei ladri… e perfino per portarlo con te, sul tuo corpo. Mi incuriosisci, Penkawr. Andiamo a vedere il tuo dono.»

I denti aguzzi del ladro marziano scintillarono brevemente, nel chiarore lunare, e subito egli si mise in cammino, seguito da Carse. Il terrestre si muoveva silenziosamente, agilmente, tenendosi pronto ad agire istantaneamente, se fosse scaturita la necessità di agire. Aveva riposto la pistola nella fondina, ma la fondina era aperta, e la mano gli pendeva sul fianco, pronta a muoversi, con le dita lievemente contratte. Si stava chiedendo che genere di prezzo progettava di chiedergli Penkawr di Barrakesh, in cambio del suo ’dono’.

Mentre salivano verso il palazzo, inerpicandosi per scogli corrosi e dirupi che mostravano ancora i segni dell’erosione del mare, Carse ebbe, come sempre, la sensazione di salire una scala di polvere e roccia, che conduceva al passato. La visione di quei grandi moli ancora intatti, che portavano ancora i segni degli attracchi delle navi e degli ormegggi, gli faceva scorrere per tutto il corpo un lungo brivido di timore e di eccitazione. Nel chiarore spettrale delle lune, si poteva quasi immaginare…