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Ansimando, coperto di sudore, con la mente sconvolta da un vortice di pensieri confusi e impossibili, continuò a scavare servendosi della nuda lama, attraverso il terriccio molle e cedevole, fino a quando un foro non si aprì, davanti a lui, e da quel foro entrò la vivida luce del sole.

La luce del sole? Allora lui era rimasto nella bolla tenebrosa molto più a lungo di quanto aveva immaginato.

Il vento filtrava nella cripta, attraverso la piccola apertura, e gli soffiava sul volto. Ed era un vento caldo. Un vento caldo e un vento umido, quale non s’era mai sentito nei deserti aridi di Marte.

Carse, allora, come pervaso da una frenesia, ricominciò a scavare, fino a quando l’apertura non fu sufficientemente larga da lasciarlo passare… e allora strisciò fuori della cripta, e fu all’aria aperta, e si alzò in piedi, nella vivida luce del giorno, guardandosi intorno.

Esistono dei momenti, nella vita, nei quali un essere umano non reagisce, non prova emozioni. Dei momenti nei quali tutti i centri nervosi sono come intorpiditi, annebbiati, e gli occhi vedono e le orecchie sentono, ma nulla di quanto si vede e si sente viene comunicato dai canali sensoriali al cervello… e questa è una grande difesa dell’essere umano, perché in questo modo il cervello è protetto dalla pazzia.

Finalmente, dopo un lungo, lunghissimo silenzio, cercò di ridere di quello che vedeva, anche se vedeva, anche se la sua risata risuonò aspra e spezzata, come un singhiozzo o come un grido di angoscia.

«Un miraggio, certo,» bisbigliò. «Un grande, enorme miraggio. Grande come tutto Marte.»

La brezza tiepida scompigliava i capelli fulvi di Carse, alitando e bisbigliando intorno a lui, avvolgendogli intorno al corpo il mantello nero. Una nuvola passeggera oscurò in quel momento il sole, e, in lontananza, un uccello emise uno stridio roco. E Carse rimase immobile.

Perché stava fissando un oceano.

Si stendeva fino al lontano orizzonte, là dove si fondeva col cielo; era un’enorme, irrequieta distesa di acqua lattea, rischiarata da una pallida fosforescenza, che si vedeva perfino alla luce del giorno.

«Un miraggio,» ripeté a voce più alta, con disperata ostinazione, mentre la sua mente vacillava, e cercava di aggrapparsi a quella misera, frammentaria spiegazione con tutta la forza che solo il terrore può dare alla mente di un uomo. «Deve essere un miraggio. Perché questo è sempre Marte!»

Era sempre Marte, sempre lo stesso pianeta. E lui si trovava tra le colline, le stesse colline tra le quali Penkawr l’aveva guidato, durante la notte.

Ma erano veramente le stesse? Quella notte, il pertugio dal quale era penetrato nella Tomba di Rhiannon era stato poco al di sopra di un breve costone roccioso, incuneato sul ripidissimo dirupo di una montagna. E ora lui si trovava sul pendio erboso di una grande collina.

E laggiù, sotto di lui, dove prima c’era stato soltanto il deserto brullo e arido, si vedevano altre verdi colline digradanti, e cupe foreste. Verdi colline, verdi foreste, e un fiume scintillante sotto il sole, un grande corso d’acqua che scendeva da una stretta gola per gettarsi in quello che era stato l’arido fondo di un mare morto, ma che ora era semplicemente… un mare.

Lo sguardo attonito di Carse seguì la linea lontana della spiaggia, lungo la grande costa. E laggiù, sulla lontana costa illuminata dal sole, egli vide lo scintillio abbagliante di una città bianca, e capì che quella era Jekkara.

Jekkara, luminosa e forte fra le fertili, lussureggianti colline e l’oceano possente, quell’oceano che era scomparso dalla faccia di Marte da quasi un milione di anni, quell’oceano che da quasi un milione di anni nessun occhio umano aveva potuto vedere in tutta la sua immensità maestosa, in tutta la sua bellezza.

E allora Matthew Carse capì che non si trattava di un miraggio. Lentamente, curvò le spalle, e scivolò a sedere sull’erba, e si nascose il volto tra le mani. Il suo corpo era percorso da brividi profondi, le spalle erano scosse da muti singhiozzi, ed egli affondò le unghie nella carne, finché il sangue non gli sporcò le guance.

Ora sapeva ciò che gli era accaduto, all’interno di quel misterioso vortice di tenebre, e gli pareva di sentire una voce gelida ripetere le enigmatiche parole di un’iscrizione ammonitrice che lui aveva letto poco tempo prima, una voce simile al lontano rimbombo del tuono.

«I Quiru sono signori dello spazio e del tempo… del tempo… DEL TEMPO!»

Carse, fissando attonito le verdi colline e l’oceano di latte, fece uno sforzo tremendo per afferrare l’incredibile, per convincersi che era realtà, per ritrovare una traccia di ragione in un universo impazzito, anche se quella traccia di ragione era in se stessa la più sfrenata delle follie.

Io sono entrato nel passato di Marte. Per tutta la vita ho studiato quel passato, e l’ho sognato con gli occhi della fantasia. E ora sono qui, l’ho raggiunto, ed esso mi circonda. Sono qui, io, Matthew Carse, archeologo, rinnegato, violatore e saccheggiatore di tombe. I Quiru, per i loro oscuri, imperscrutabili motivi, hanno creato una strada che conduce al passato, e io l’ho percorsa. Per noi, il tempo è la dimensione sconosciuta, ma i Quiru la conoscevano, e ne avevano penetrato il segreto!

Carse era un uomo di scienza; per diventare un archeologo planetario occorreva studiare gli elementi di almeno mezza dozzina di discipline scientifiche. Così, in quel momento di immenso stupore e di attonita rivelazione, egli cercò freneticamente tra i suoi ricordi, per trovare gli elementi che potevano aiutarlo a dare una spiegazione scientifica, razionale, dell’evento apparentemente impossibile che era capitato.

Aveva avuto ragione, quando per la prima volta aveva sospettato la vera’natura della bolla tenebrosa? Si trattava realmente di un buco, di una breccia nel continuum dell’universo la porta di un sentiero che usciva dallo spazio-tempo, e si avventurava per dimensioni ignote, nel reame dell’ignoto, là dove i concetti di spazio normale e di tempo normale non esistevano?

Se aveva visto giusto, allora poteva comprendere, sia pure confusamente, sia pure fievolmente, ciò che gli era accaduto.

Perché il continuum dello spazio-tempo, nell’universo, era finito, limitato. Erano stati Einstein e Riemann a dimostrare questa verità scientifica, tanto, tanto tempo prima. E cadendo nella bolla, spinto da Penkawr, lui era caduto ’fuori’ del normale continuum spazio-temporale nel quale era nato, e nel quale aveva vissuto fino a quel giorno, ritrovandosi per un momento sbalzato al di fuori dei conosciuti confini… per ritrovarsi poi nello stesso continuum, ma in un momento temporale diverso. Per lui, non era cambiata la dimensione spaziale, ma quella del tempo.

Che cosa aveva scritto un tempo Kaufman? «Il Passato è il Presente che esiste in distanza.» E lui era ritornato indietro, era ritornato in quell’altro, lontanissimo Presente, e questo era tutto. Non c’era alcun motivo per avere paura.

E invece lui aveva paura. L’orrore di quel passaggio da incubo per raggiungere questo Marte verde e sorridente del più lontano passato, gli strappò un gemito di paura, un suono rauco e Impaurito, come quello di un animale spaventato.

Ciecamente, continuando a stringere l’elsa della spada ingioiellata, balzò in piedi, e si voltò, per rientrare nella sepolta Tomba di Rhiannon.

«Posso tornare indietro,» disse, e le sue parole furono come una sfida lanciata al mondo impossibile che lo circondava ammiccando, con i mille furtivi riverberi suscitati dal sole. «Posso ripercorrere la stessa strada, e ritornare nel mio tempo. Posso entrare di nuovo in quella breccia nel continuum, e di là raggiungere l’epoca dalla quale sono venuto.»