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Si fermò, bruscamente, e il suo corpo fu scosso da un fremito convulso. Non poteva affrontare di nuovo quella orrenda sfera di oscurità pulsante, con le scintille vorticose che la percorrevano, con il suo infinito, innominabile abisso senza luce e senza suono. Il suo corpo si ribellava, al pensiero di trovarsi nuovamente sbalzato nell’infinito che si stendeva tra le dimensioni dello spazio e del tempo, al di fuori dell’universo. Sentiva di non poter fare una cosa simile.

Perché non ne aveva il coraggio. Lui non possedeva la sapienza dei Quiru. In quel pericoloso tuffo attraverso le tenebre luminose della bolla, e poi attraverso l’abisso oscuro, incredibilmente, totalmente oscuro che separava i presenti come isole nel gran mare del tempo, era stato il caso a condurlo in quell’altro presente, in quell’epoca remotissima del passato di Marte. Il caso e una fortuna incredibile lo avevano aiutato a trovare la strada. Avrebbe potuto precipitare nell’abisso del tempo per eoni incalcolabili, venire scagliato in un nuovo universo, giungere alla fine del viaggio in un’epoca nella quale la Terra doveva ancora formarsi nel vuoto sideralè, e Marte era un globo di magma incandescente, e morire orribilmente; o uscire in un’epoca ancora precedente, quando neppure Marte era uscito dal caos primigenio, e ritrovarsi nello spazio, nudo e inerme, per morire nel giro di un istante. No, solo un’incredibile, incalcolabile fortuna gli aveva permesso di sopravvivere, e di ritrovarsi in quel mondo antichissimo e giovane a un tempo, per lui. Non poteva sperare che si verificasse l’incredibile concatenazione di eventi fortunati che avrebbe potuto riportarlo nell’epoca dalla quale era venuto. Le possibilità erano così remote, così esigue, da riuscire del tutto impossibili.

«Sono qui, nel passato,» disse allora, tra sé. «Sono qui, nel remotissimo passato di Marte, in un’epoca che neppure le leggende ricordano, forse… e devo restare. Per me, la strada del ritorno è chiusa.»

Voltò di nuovo la schiena alla massa di terriccio smosso, e alla stretta apertura che dava sulla Tomba sepolta, e i suoi occhi indugiarono di nuovo sull’incredibile panorama. Rimase a rimirare quello scenario fiabesco per molto tempo, immobile, come affascinato. Gli uccelli marini vennero e si accostarono a lui e lo guardarono curiosi, e poi volarono via rapidi, liberi, muovendosi le bianche ali puntute. Le ombre cominciarono ad allungarsi, e a colmare le piccole valli tra le colline ondulate.

I suoi occhi si posarono allora sulle bianche torri di Jekkara, che riposava splendida laggiù, in lontananza, ancora immersa nella luce del sole, e di là dominava come una regina il suo golfo e il porto. Non era la vecchia Jekkara che lui conosceva bene, la città dei ladri dei Canali Inferiori, quella città logorata dal tempo, ove la polvere era caduta e aveva vinto una lunga, antica battaglia; non era più la città morente, circondata dalle rovine di evi più antichi, dominata dal ricordo di un passato immemorabile. Ma era pur sempre un legame con il mondo familiare, con il mondo che lui conosceva, e, disperatamente, Carse si aggrappò a quella sensazione, perché la sua mente scossa aveva bisogno di un legame con il mondo dal quale era venuto… qualsiasi legame, anche il più tenue, per vincere l’emozione e l’orrore del passaggio.

E in quel momento, fissando la città regale, altera, che si stendeva laggiù, lontana, egli prese una decisione. Una decisione impulsiva, e nello stesso tempo logica, nata dal turbine di pensieri che si agitavano nella sua mente, nata dalla consapevolezza della fragilità della sua mente, di fronte all’immenso abisso nel quale era precipitato.

Lui sarebbe andato a Jekkara. E avrebbe cercato di non pensare, di non pensare a niente. Doveva escludere ogni pensiero, ogni immaginazione, ogni ipotesi, ogni idea… altrimenti sapeva per certo che la sua mente avrebbe ceduto, che lui sarebbe stato travolto dal gorgo inesorabile della follia.

Carse strinse l’elsa della spada scintillante di gemme preziose, e cominciò a discendere il dolce pendio erboso della collina.

Capitolo III

LA CITTÀ DEL PASSATO

C’era una lunga strada da percorrere, per raggiungere la città dalle colline. Carse camminava di buon passo, senza cercare di scoprire i sentieri più agevoli, ma attraversando o scavalcando decisamente tutti gli ostacoli, senza mai deviare dalla linea retta che portava a Jekkara. Il mantello gli impediva i movimenti, e allora se lo tolse, strappandoselo di dosso e gettandolo via, con rabbia. Il suo viso era privo di qualsiasi espressione, ma il sudore gli scendeva copioso sulle guance, e si mescolava alle lacrime.

Ed egli camminava tra due mondi.

Attraversò quiete vallate dormienti, nella calura della giornata estiva, dove rami verdeggianti di strani alberi gli sfioravano il viso, e il succo delle erbe calpestate gli macchiava i sandali. E molte creature viventi, alate, pelose, dal passo lieve, fuggivano via al suo passaggio, con un fruscio e un guizzo e un sussurro. Eppure, attraverso quel mondo fertile e vivo, lui sapeva di camminare in un deserto, dove perfino il vento aveva dimenticato i nomi dei morti sui quali piangeva.

Valicò creste elevate di colline, dalle quali poteva vedere il mare stendersi davanti a lui, e poteva udire il rabbioso frangersi delle onde sui litorali. Eppure lui vedeva soltanto una grande pianura morta, dove un mare di polvere s’increspava, formando piccole onde fruscianti che si frangevano contro gli scogli asciutti.

Non poteva dimenticare così in fretta la realtà che avevano dominato trent’anni di vita. Nessuno avrebbe potuto farlo.

Lentamente, il sole calava verso l’orizzonte. E quando Carse valicò l’ultima cresta che dominava la città, cominciò l’ultima discesa sotto una grande volta di fiamma. Il mare era un’immensa distesa di fuoco inquieto, poiché la bianca fosforescenza aveva preso colore dalle nuvole di porpora. Con attonita meraviglia, Carse vide l’oro e lo scarlatto e la porpora scendere lungo la curva ampia del cielo, per poi spandersi sulle acque.

Di là, il suo sguardo poteva spaziare sul porto e sulla rada. Le banchine di marmo, che lui aveva conosciuto così bene, corrose e sgretolate dagli anni senza fine, soffocate dalla sabbia del deserto, bianche e solitarie e tristi sotto la luce delle lune… quelle stesse banchine erano davanti ai suoi occhi, ora, non era possibile confonderle, eppure parevano uscite da un miraggio, perché erano bianche e intatte e orgogliose, e, come un miraggio, il mare colmava il bacino del porto.

C’erano grandi vascelli mercantili, dalla chiglia arrotondata, che dondolavano pigramente nelle acque inquiete, attraccati ai moli, e nell’aria umida e tiepida del crepuscolo giungevano fino a lui le grida degli scaricatori e degli schiavi sudati che lavoravano alacremente, sotto lo sguardo freddo e impassibile dei sorveglianti. Fra i grandi vascelli decine e decine di barche andavano e venivano, e più lontano, oltre lo spartiacque, Carse poté vedere la flottiglia dei pescherecci di Jekkara che ritornava a casa, con le rosse vele cupe di cinabro contro il fosco rosseggiare del cielo di ponente.

Vicino ai moli del palazzo, quasi nello stesso punto in cui era andato con Penkawr, là dove per la prima volta aveva visto la spada di Rhiannon, una lunga galera da guerra, snella e nera, con un grande ariete di bronzo, stava acquattata sulle acque, come una pantera in agguato. Dietro a essa, c’erano numerose altre galere. E al di sopra di quella nera flotta, alte e superbe, s’innalzavano le bianche torri del palazzo.

Quelli visioni dissiparono, in piccola parte, il velo di attonito stupore che aveva oscurato la mente di Carse, dal momento in cui egli aveva iniziato la lunga, solitaria camminata verso la città bianca, tra le colline verdi, sotto il cielo di fiamma. Il pensiero s’insinuò nella sua mente, un pensiero che conteneva stupore e ansia e una bizzarra, inesplicabile gioia.