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Ho risalito il corso del tempo per un lungo, lunghissimo tratto, diceva questo pensiero. Sono sprofondato nel più remoto passato di Marte. Perché questo è il pianeta Marte come era un milione di anni fa, proprio come gli archeologi l’hanno sempre raffigurato!

Un pianeta di civiltà diverse in perenne conflitto, civiltà che erano riuscite appena a raggiungere i primi rudimenti della scienza, ma che favoleggiavano di un passato ancor più remoto, nel quale su Marte era esistita una scienza superiore, essa stessa al confine con la favola… l’ancestrale ricordo di un passato oscuro e quasi dimenticato, un passato che si confondeva con l’inizio del tempo, e nel quale erano esistiti i Quiru, dall’incredibile potenza scientifica che aveva fatto di loro degli dei.

Un pianeta del passato ormai perduto, pensò ancora Carse. Un pianeta che, secondo la legge di Dio, nessun uomo del mio tempo avrebbe dovuto vedere!

Matthew Carse rabbrividì, come se d’un tratto una ventata gelida fosse giunta dalle remote, dimenticate regioni del nord, a spezzare l’armonia di quell’aria tiepida, della dolce brezza profumata che spirava dal mare. Lentamente, lentamente, scese nelle strade di Jekkara, e neU’infuocato crepuscolo gli parve che il riverbero del cielo macchiasse di sangue l’intera città.

Avanzando, si trovò circondato, rinserrato da mura e pareti. C’era una nebbia oscura davanti ai suoi occhi, e un rombo continuo, sordo, nelle sue orecchie, eppure si accorgeva della gente che si muoveva intorno a lui. Uomini e donne magri e snelli, che si muovevano con l’agilità e la grazia dei felini, e che gli passavano accanto, nelle strade e nei vicoli angusti, Io sfioravano e s’incrociavano con lui, e procedevano ancora per pochi passi, poi, d’un tratto, si arrestavano e si voltavano a fissarlo, spalancando gli occhi per una mescolanza di sentimenti tra i quali dominava lo stupore. Gli abitanti di Jekkara, gente dalla carnagione scura e dai movimenti felini e furtivi, gli abitanti di Jekkara l’Eterna, la città sul Canale Inferiore e la bianca, orgogliosa città di questo altro tempo.

Intorno a lui, sentiva giungere la musica singhiozzante delle arpe, e il brusio melodioso dei campanelli che le donne portavano come ornamenti, ora come allora. I suoni giungevano vibranti, a ondate lente, e in quei suoni alitava il respiro della città, il respiro di Marte, basso e vivo e crudele come sempre. Il vento gli sfiorava il viso, ma era un vento umido e caldo, greve del respiro del mare, ed era più di quanto un uomo potesse sopportare.

Carse continuava a camminare, ma in realtà non sapeva dove andare, né cosa fare. Camminava, solo perché si stava già muovendo, e non aveva la forza né il desiderio di fermarsi.

Un piede davanti all’altro, ciecamente, stolidamente, come un uomo vittima di un incantesimo, camminava per le strade, tra i bruni Jekkariani, un uomo alto e biondo che impugnava una spada sguainata.

La gente della città lo guardava. Gente del porto, delle taverne e dei vicoli, scaricatori e sorveglianti, padroni e avventori, mercanti e vagabondi, e tutti si scostavano al suo passaggio, per poi riunirsi dietro di lui, cominciando a seguirlo e fissandolo, attoniti.

L’abisso dei millenni li divideva. Il suo gonnellino era fatto di una stoffa sconosciuta, ed era di un colore sconosciuto e bizzarro. I suoi ornamenti venivano da un tempo e da un paese che i loro occhi non avrebbero mai potuto vedere. E il suo viso… il suo viso era alieno.

Lui camminava straniero in mezzo a loro, e fu proprio questo a tenerli lontani, per qualche tempo… l’aura di estraneità, di diversità che essi avvertivano al suo passaggio. Era come se egli portasse ancora su di lui un soffio della incredibile verità, un soffio rimasto aggrappato al suo corpo dopo il tuffo nell’infinito oscuro, e quest’aura strana li impaurisse, li costringesse a rimanere a una certa distanza, trattenuti da qualche strano, inesplicabile incantesimo. E poi, qualcuno nella piccola folla che si era formata alle sue spalle, pronunciò a voce alta un nome, e qualcun altro lo ripeté, e le labbra dei bruni abitanti di Jekkara propagarono quella parola, quel messaggio, fino a quando non fu una vibrazione, un suono che tremava nell’aria. E, nello spazio di pochi secondi, non ci fu più mistero, non ci fu più. paura… ma soltanto odio.

Carse udì il nome.

Fievolmente, confusamente, da una grande distanza, egli lo udì, mentre cresceva da sussurro a urlo rabbioso, lo sentì correre come l’ululato di una torma di lupi attraverso le strade e i vicoli. Quel grido era sordo, aspro, e la sua intensità riuscì a penetrare attraverso la nebbia oscura che velava la mente del terrestre, riuscì a raggiungere i centri del pensiero, dove venne filtrato, e trasformato da semplice suono in parole.

«Khond! Khond!» era il primo grido.

«Una spia di Khondor!» gridavano altri.

E poi, un’altra parola, ripetuta di bocca in bocca, come il rotolare rombante di un tuono nella notte:

«Uccidiamolo! uccidiamolo!»

Il nome «Khond» non aveva alcun significato, per Carse, ma il tono in cui veniva pronunciato gli permise di riconoscerlo per quello che era, un insulto, un epiteto, un’imprecazione. La voce sorda, rombante della folla che si era radunata alle sue spalle gli portava una minaccia di morte, ed egli cercò di riscuotersi dall’abulia nella quale era caduto, perché l’istinto della sopravvivenza è forte, e si risveglia impetuoso nel momento del bisogno. Ma la sua mente era torpida e offuscata, e non voleva destarsi, neppure al suono del pericolo.

Una pietra lo colpì su una guancia. E il colpo fisico lo riscosse un poco, diede una scintilla di percezione alla sua mente, rafforzò un poco la sua volontà di reagire. Sentì sulle labbra il sapore dolciastro del sangue, e capì che si trattava del suo sangue. Quel sapore dolce e salato a un tempo gli disse, inequivocabilmente, che l’opera di distruzione era già cominciata. Per un istante, si lasciò pervadere dalla sensazione di sconfitta, dalla sensazione di un destino irrevocabile, scritto per lui nel momento stesso in cui era caduto nella bolla tenebrosa, fuori del tempo e dello spazio e dell’universo. Ma poi egli cercò di dissipare i veli tenebrosi che offuscavano la sua vista e la sua mente, cercò di liberarsi dall’incantesimo strano che lo aveva tenuto prigioniero, almeno per quanto bastava a vedere il nemico che lo minacciava.

Il suo cieco vagabondare l’aveva condotto in uno spazio aperto, vicino ai moli. Ora, nel fiero crepuscolo, il mare fiammeggiava di gelido fuoco bianco. Contro quella infinita massa ardente e inquieta si stagliavano neri, alti e sottili gli alberi dei velieri ancorati. Nel cielo che incupiva sempre più, Fobos già si stava levando all’orizzonte, e nella luce incerta e cangiante Carse vide che alcune creature si stavano arrampicando sulle gomene e sulle sartie delle navi, ed erano esseri pelosi, incatenati, e non del tutto umani.

E dalla parte del molo egli vide due uomini snelli, dalla carnagione bianca e alati. Essi indossavano il perizoma degli schiavi, e le loro ali erano mozzate.

La piazza era gremita di gente. E altra gente si riversava nella piazza, continuamente, dagli stretti vicoli vicini, attirata dal grido di Spia! che echeggiava da un edificio all’altro; e il nome di «Khondor» martellava le orecchie di Carse.

Dalla parte delle banchine e dei moli e delle navi, dagli schiavi alati e dalle creature incatenate che guardavano dalle sartie e dalle gomene, giunse alle orecchie di Carse un grido che era un’invocazione, e una sfida, e una preghiera.

«Evviva Khondor! Combatti, Uomo!»

Le donne, tra la folla, urlavano come arpie. Un’altra pietra passò sibilando accanto all’orecchio di Carse. La folla era in tumulto, pareva gonfiarsi, spingere coloro che si trovavano davanti, per travolgere l’odiato straniero; ma quelli che si trovavano davanti, i più vicini a Carse, resistettero alla spinta, rimasero fermi, nel tumulto generale, intimoriti dalla grande spada rngioiellata e dalla sua sfavillante lama sguainata.