Quel pomeriggio, mentre Sparviero stava seduto a meditare e sembrava che non vedesse nulla e non si curasse di nulla, Sopli si trascinò cautamente verso Arren. Chiese, a voce bassa: — Tu non vuoi morire, vero?
— Certo che no.
— Lui sì — disse Sopli, indicando Sparviero con un piccolo movimento della mandibila.
— Perché dici questo?
Arren aveva assunto un tono di principesca alterezza che per la verità gli veniva naturale; e Sopli l’accettò con la stessa naturalezza, sebbene avesse dieci o quindici anni più di lui. Rispose prontamente e con cortesia, anche se in quel suo solito modo frammentario. — Lui vuole andare nel luogo segreto. Ma non so perché. Lui non vuole… Non crede nella… nella promessa.
— Quale promessa?
Sopli alzò bruscamente gli occhi verso Arren, con un’espressione di umanità devastata; ma la volontà di Arren era più forte. Rispose, a voce molto bassa: — Lo sai. La vita. La vita eterna.
Un grande gelo invase le membra di Arren. Ricordò i suoi sogni: la brughiera, il gorgo, gli strapiombi, la luce fosca. Quella era la morte; quello era l’orrore della morte. Doveva sottrarsi alla morte, trovare la via. E sulla soglia stava la figura incoronata d’ombra, che protendeva una luce minuscola, non più grande di una perla, lo scintillio della vita immortale.
Arren incontrò per la prima volta gli occhi di Sopli: erano castani, molto chiari. E in quegli occhi vide che lui aveva finalmente compreso e che Sopli condivideva la sua conoscenza.
— Lui — disse il Tintore, indicando di nuovo Sparviero con un movimento della mandibola — non vuole rinunciare al suo nome. Nessuno può portare al di là il suo nome. La via è troppo stretta.
— Tu l’hai vista?
— Nella tenebra, nella mia mente. Non basta. Voglio arrivarci: voglio vederla. Nel mondo, con i miei occhi. E se… e se morissi, e non riuscissi a trovare la via, il posto? Molti non possono trovarlo: non sanno neppure che esiste. Solo alcuni di noi hanno il potere. Ma è difficile, perché si deve rinunciare al potere per arrivarci… Niente più parole. Niente più nomi. È troppo difficile farlo nella mente. E quando uno… muore, la sua mente… muore. — Ogni volta, s’impuntò sulla parola. — Io voglio sapere che potrò tornare. Voglio andare là. Dalla parte della vita. Voglio vivere, essere al sicuro. Odio… odio quest’acqua…
Il Tintore rattrappì le membra come fa un ragno quando cade, e ritrasse la testa fulva e ispida tra le spalle, per escludere la vista del mare.
Ma dopo quella volta Arren non evitò più di conversare con lui, poiché sapeva che Sopli non condivideva soltanto la sua visione ma anche la sua paura; e che, se si fosse arrivati al peggio, forse avrebbe potuto aiutarlo contro Sparviero.
Continuavano ad avanzare lentamente, tra le bonacce e le brezze irregolari, verso occidente, dove Sparviero affermava che Sopli li stava guidando. Ma Sopli non li guidava affatto: non sapeva nulla del mare, non aveva mai visto una carta nautica, non era mai salito su una barca, temeva l’acqua con un terrore morboso. Era il mago, a guidarli, e li conduceva volutamente fuori strada. Adesso Arren se ne rendeva conto, e ne capiva la ragione. L’arcimago sapeva che loro, e altri come loro, cercavano la vita eterna: ne avevano ricevuto la promessa, ne venivano attratti, e avrebbero potuto trovarla. Nel suo orgoglio, il suo schiacciante orgoglio di arcimago, temeva che la trovassero: li invidiava, e li temeva, e non voleva permettere che un altro uomo diventasse più grande di lui. Aveva intenzione di spingersi nel mare aperto, al di là di tutte le terre, finché si fossero perduti completamente e non potessero più ritornare nel mondo; e allora sarebbero morti di sete. Perché era disposto a morire anche lui, pur d’impedire loro di raggiungere la vita eterna.
Di tanto in tanto veniva il momento in cui Sparviero parlava ad Arren di piccole cose relative al governo della barca, o nuotava insieme a lui nel caldo mare, e gli augurava la buonanotte, sotto le grandi stelle: e al ragazzo, allora, tutte quelle idee sembravano completamente assurde. Guardava il suo compagno e vedeva quel volto duro, aspro, paziente e pensava: questo è il mio signore e amico. E gli pareva incredibile di aver dubitato. Ma poco dopo dubitava ancora, e lui e Sopli si scambiavano occhiate per mettersi reciprocamente in guardia contro il nemico comune.
Ogni giorno il sole splendeva ardente, e tuttavia opaco. La sua luce era come una patina invetriata sulle lente onde del mare. L’acqua era azzurra e il cielo era azzurro, senza mutamenti, senza sfumature. Le brezze spiravano e cadevano, e loro giravano la vela per sfruttarle e avanzavano lentamente, senza una meta.
Un pomeriggio, finalmente, incontrarono un leggero vento propizio; e Sparviero tese il braccio in direzione del tramonto, dicendo: — Guarda. — In alto, sopra l’albero, una fila di oche marine tremolava come una runa nera tracciata attraverso il cielo. Le oche volavano verso occidente; e, seguendole, il giorno successivo la Vistacuta giunse nei pressi di una grande isola.
— Eccola — disse Sopli. — Quella terra. È là, che dobbiamo andare.
— Il luogo che cerchi è là?
— Sì. Dobbiamo sbarcare. Non possiamo andare oltre.
— Quella terra dev’essere Obehol. Più oltre, nello Stretto Meridionale, c’è un’altra isola, Wellogy. E nello Stretto Occidentale ci sono isole ancora più a ovest di Wellogy. Ne sei certo?
Il Tintore di Lorbanery s’incollerì, e l’espressione agghiacciante riapparve nei suoi occhi; ma non parlò da pazzo, pensò Arren, come invece aveva fatto quando avevano parlato per la prima volta con lui, molti giorni prima, a Lorbanery. — Sì. Dobbiamo sbarcare qui. Siamo andati abbastanza lontano. Il posto che cerchiamo è qui. Devo giurare che lo so? Vuoi che giuri sul mio nome?
— Non puoi — disse Sparviero, con voce dura, levando lo sguardo verso Sopli, che era più alto di lui: Sopli si era alzato, aggrappandosi all’albero, per guardare l’isola davanti a loro. — Non tentare di farlo, Sopli.
Il Tintore fece una smorfia, di sofferenza o di rabbia. Guardò le montagne inazzurrate dalla distanza, davanti alla barca, sulla tremula pianura delle acque, e disse: — Tu mi hai preso come guida. Il luogo è questo. È qui, che dobbiamo sbarcare.
— Sbarcheremo comunque; abbiamo bisogno d’acqua dolce — replicò Sparviero, e andò al timone. Sopli si sedette al suo solito posto, borbottando. Arren lo sentì dire: — Lo giuro sul mio nome. Sul mio nome. — Lo ripeté molte volte; e ogni volta che lo diceva, faceva di nuovo una smorfia, come se soffrisse.
Si avvicinarono all’isola, sospinti da un vento che soffiava dal nord, e la costeggiarono cercando una baia o una spiaggia per sbarcare, ma i frangenti battevano tuonando nel caldo sole lungo tutta la costa settentrionale. Nell’entroterra, le verdi montagne cuocevano in quella luce, ammantate d’alberi fino alle vette.
Doppiarono un capo, e giunsero finalmente in vista di una profonda baia a forma di mezzaluna, con spiagge di sabbia bianca. Lì le onde arrivavano quiete, smorzate dal promontorio, e una barca poteva toccare la riva. Non si scorgeva traccia di presenza umana, sul lido o nelle foreste; non avevano visto una barca, o un tetto, o un filo di fumo. La leggera brezza cadde appena la Vistacuta entrò nella baia. C’erano silenzio, immobilità, afa. Arren prese i remi, Sparviero si mise al timone. Lo scricchiolio dei remi negli scalmi era l’unico suono. Le verdi vette torreggiavano sopra la baia, cingendola. Il sole stendeva sull’acqua drappi di luce incandescente. Arren si sentiva il sangue rombare negli orecchi. Sopli aveva abbandonato il sostegno dell’albero e si era accovacciato a prua, aggrappandosi alla frisata, guardando la terra e protendendosi in avanti. Il volto scuro e sfigurato di Sparviero luccicava di sudore, come se fosse unto di olio; il suo sguardo andava continuamente dai bassi frangenti alle alture schermate dal fogliame.