Gli parve che scendessero a lungo quel declivio, ma forse era solo un breve tratto: perché non c’era il trascorrere del tempo, là dove non spiravano i venti e dove le stelle non si muovevano. Poi giunsero nelle vie di una delle città che si trovano in quel luogo, e Arren vide le case con le finestre che non s’illuminavano mai, e su certe soglie stavano i morti, col volto quieto e le mani vuote.
Le piazze del mercato erano deserte. Lì non si vendeva e non si acquistava, non si guadagnava e non si spendeva. Non veniva usato nulla, e nulla veniva fabbricato. Ged e Arren percorrevano soli le vie strette, sebbene talvolta scorgessero una figura all’angolo di un’altra strada, lontana e appena distinguibile nell’oscurità. Quando vide la prima di quelle figure, Arren trasalì e tese la spada per indicarla, ma Ged scosse la testa e proseguì. Poi il ragazzo vide che era una donna e che camminava lentamente, non fuggiva davanti a loro.
Tutti coloro che videro — non molti perché, sebbene i morti siano molti, quella terra è assai grande — stavano immoti o si muovevano lentamente, senza una meta o uno scopo. Nessuno di loro aveva ferite, come le aveva avute la sembianza di Erreth-Akbe, evocata nella luce del sole sul luogo della sua morte. Non mostravano segni di infermità. Erano integri e risanati. Erano guariti dalla sofferenza e dalla vita. Non erano ripugnanti come aveva temuto Arren, e non erano spaventosi nel senso che aveva immaginato. I loro volti erano quieti, liberi dall’ira e dal desiderio, e nei loro occhi bui non c’era speranza.
Invece della paura, allora, una grande pietà sorse nel cuore di Arren; e se sotto la pietà c’era paura, non era per se stesso ma per tutti. Perché vedeva la madre e il figlio che erano morti insieme ed erano insieme nella terra tenebrosa: ma il bambino non correva e non piangeva, e la madre non l’abbracciava, non lo guardava neppure. E coloro che erano morti per amore s’incrociavano per le vie senza scambiarsi un’occhiata.
La ruota del vasaio era ferma, il telaio vuoto, la stufa fredda. Nessuna voce cantava mai.
Le strade buie, tra le case scure, continuavano e continuavano, e loro le percorrevano. Il suono dei loro passi era l’unico suono. Era freddo. Arren non aveva notato subito quel freddo, ma gli si insinuava nello spirito, che lì era anche il suo corpo. Si sentiva esausto. Dovevano aver percorso molta strada. Perché proseguire?, pensò, e i suoi passi rallentarono un poco.
All’improvviso Ged si fermò, voltandosi verso un uomo che stava all’incrocio di due strade. Era snello e alto, e Arren pensava di aver già visto il suo volto sebbene non ricordasse dove. Ged gli parlò, e nessun’altra voce aveva infranto il silenzio da quando avevano scavalcato il muro di pietre: — Thorion, amico mio, come sei giunto qui?
E tese le mani verso l’Evocatore di Roke.
Thorion non rispose a quel gesto. Stava immobile, e il suo volto era immobile: ma la luce argentea del bastone di Ged colpì a fondo i suoi occhi velati d’ombra, suscitandovi un lieve chiarore o rivelandolo. Ged prese la mano che non gli veniva tesa e disse ancora: — Cosa fai, qui? Tu non appartieni ancora a questo regno. Torna indietro!
— Seguivo l’immortale. Ho perso la strada. — La voce dell’Evocatore era sommessa e opaca, come quella di un uomo che parla nel sonno.
— Su, verso l’alto; verso il muro — disse Ged, indicando la direzione da cui erano venuti lui e Arren, la lunga via buia in discesa. E ci fu un tremito sul volto di Thorion, quasi una speranza fosse penetrata in lui come una spada, come una sofferenza intollerabile.
— Non riesco a trovare la via. Mio signore, non riesco a trovare la via.
— Forse la troverai — disse Ged, e l’abbracciò; e poi proseguirono. Thorion era rimasto fermo al crocicchio, dietro di loro.
Mentre camminavano, Arren ebbe la sensazione che in quell’oscurità senza tempo non ci fossero in realtà né avanti né indietro, né est né ovest, nessuna direzione in cui andare. C’era una via d’uscita? Pensò a com’erano scesi dalla collina, sempre in discesa per quanto svoltassero; e anche nella buia città le vie erano in discesa. e per tornare al muro di pietre bastava che risalissero: l’avrebbero trovato alla sommità del declivio. Ma non tornarono indietro. Proseguirono, a fianco a fianco. E lui seguiva Ged? Oppure lo guidava?
Uscirono dalla città. La campagna degli innumerevoli morti era deserta. Dalla terra pietrosa, sotto le stelle che non tramontavano mai, non cresceva un albero, un roveto, neppure un filo d’erba.
Non c’era un orizzonte, perché l’occhio non poteva spingersi lontano nel buio: ma davanti a loro le piccole stelle immote erano assenti dal cielo per un lungo tratto, sopra il suolo, e quello spazio privo di stelle era dentato e inclinato come una catena di montagne. Mentre procedevano, i contorni divennero più distinti: alte vette, mai logorate dal vento o dalla pioggia. Su quei picchi non c’era neve che luccicasse sotto le stelle. Erano neri. La loro vista colmò di desolazione il cuore di Arren. Ne distolse lo sguardo. Ma li conosceva; li riconosceva; i suoi occhi ne furono attratti di nuovo. Ogni volta che guardava quelle vette sentiva un freddo peso nel petto, e quasi gli veniva meno il coraggio. Eppure continuava a camminare, sempre in discesa perché il terreno digradava declinando verso la base delle montagne. Infine chiese: — Mio signore, che cosa sono… — Additò le montagne, perché non poteva continuare a parlare: aveva la gola secca.
— Confinano col mondo della luce — rispose Ged. — Come il muro di pietre. Non hanno altro nome che Dolore. C’è una strada che le attraversa: è proibita ai morti. Non è lunga, ma è una strada amara.
— Ho sete — disse Arren, e il suo compagno replicò: — Qui bevono polvere.
Proseguirono.
Ad Arren sembrava che l’andatura del suo compagno fosse rallentata un poco e che qualche volta esitasse. Ma lui non provava più esitazioni, sebbene la stanchezza non smettesse di crescere in lui. Dovevano scendere; dovevano proseguire. Proseguirono.
Talvolta attraversavano altre città dei morti, dove i tetti scuri disegnavano angoli contro le stelle, che restavano sempre nello stesso posto sopra di loro. Dopo ogni città c’era di nuovo la terra vuota, dove non cresceva nulla. Appena uscivano da una città, quella si perdeva nella tenebra. Non si vedeva nulla, né più avanti né più indietro, tranne le montagne che erano sempre più vicine e torreggiavano di fronte a loro. Sulla destra l’informe pendio continuava a digradare come quando (quanto tempo prima?) avevano attraversato il muro di pietre. — Cosa c’è da quella parte? — mormorò Arren a Ged, perché aveva bisogno di udire il suono di una voce; ma il mago scrollò il capo. — Non lo so. Può essere una via senza fine.
Nella direzione in cui procedevano, il pendio sembrava attenuarsi gradualmente. Il terreno, sotto i loro piedi, emetteva uno stridore aspro, come polvere di lava. Continuavano a procedere; e adesso Arren non pensava più al ritorno, e non si chiedeva come avrebbero potuto tornare. Non pensava neppure a fermarsi, sebbene fosse stanchissimo. A un certo momento tentò di fugare l’oscurità e la stanchezza e l’orrore pensando alla sua patria: ma non riusciva a ricordare com’era la luce del sole o il volto di sua madre. Non c’era altro da fare che proseguire. E proseguì.
Sentì il terreno diventare pianeggiante, sotto i suoi piedi; al suo fianco, Ged esitò. Poi si fermò a sua volta. La lunga discesa era finita: era impossibile proseguire, e non era necessario.
Erano nella valle direttamente alla base delle montagne del Dolore. C’erano sassi sotto i loro piedi e macigni tutt’intorno, ruvidi al tatto come scorie. Quella stretta valle sembrava il letto asciutto di un fiume d’acqua, ormai inaridito, o di un fiume di fuoco, raffreddato da tempo, disceso dai vulcani che ergevano lassù le cime nere e spietate.
Arren si fermò, nella stretta valle buia, e Ged stette immobile al suo fianco. Stavano come i morti, senza uno scopo, guardando nel vuoto, silenziosi. Arren pensò, con un po’ di paura: siamo giunti troppo lontano.