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Fredric Brown

La statua che urla

I

Non potete mai dire che cosa farà un ubriaco irlandese. Potete azzardare una o cento ipotesi, a cominciare dalle più probabili, che sono facili da indovinare: cercarsi ancora da bere, attaccar briga con qualcuno, tenere un discorso, salire su un treno… per poi continuare con le più difficili: comperare un fascio di bandiere del suo paese, mettere nel caffè una barbabietola al posto dello zucchero, danzare coi veli, cantare l’inno nazionale o rubare un oboe. Così arriverete all’ipotesi meno probabile di tutte: che lui prenda una decisione e la mantenga.

So benissimo che è incredibile, eppure è successo. Un tipo che si chiamava Sweeney, una volta, a Chicago, lo fece. Prese una decisione e per portarla a termine dovette tenersi a galla in un mare di sangue e di caffè nero, però la spuntò. Forse non era quella che la gente normale chiama una «saggia» decisione, ma questo non importa. Importa che l’incredibile avvenne.

Ora dobbiamo fare molta attenzione, perché la verità non corrisponde mai ai modelli convenzionali. Come, ad esempio, «un irlandese ubriaco»: questo è un modello, se ce n’è uno, ma di rado la verità è tanto semplice.

Il tipo in questione si chiamava Sweeney veramente, ma era irlandese solo per cinque ottavi e sbronzo solo per tre quarti. Questo è il punto più vicino alla verità cui possa arrivare il modello, e se qualcuno non è soddisfatto, è meglio che smetta di leggere. Se non smettete adesso, forse in seguito vi dispiacerà, perché non è una storia simpatica. Ci sono assassinii, donne e alcol, dissipazioni e abusi. C’è un assassinio prima ancora che incominci la storia vera e propria, e ce n’è uno dopo che è finita; si comincia subito con una donna nuda e si finisce ancora con una donna nuda. Si tratta indubbiamente di un bel principio e di una bella fine, ma tutto quel che vi corre in mezzo non è affatto bello. Non mi dite che non vi ho avvertito in tempo. Ora, se leggete ancora, torniamo a Sweeney.

In una notte d’estate, Sweeney sedeva su una panchina del parco, accanto a Dio. A Sweeney, Dio piaceva, anche se non molti altri la pensavano come lui: Dio era un vecchio secco e dinoccolato, con una barba corta e arruffata, macchiata di nicotina. Il nome intero era Diomede e dico «il nome intero» a ragion veduta, perché nessuno, nemmeno Sweeney, sapeva se fosse il nome o il cognome. Era pazzo, ma non del tutto. Non più di quanto lo siano in genere a quell’età i vagabondi che vivono nei quartieri nord di Chicago e che col bel tempo ciondolano in giro per Bughouse Square. (Bughouse vuol dire casa delle cimici e la piazza viene chiamata anche in modo diverso, ma molto meno appropriato.) Bughouse si trova fra Clark Street e Dearborn Street, a sud della Newberry Library. Questa è la sua posizione orizzontale; verticalmente parlando, è molto più vicina all’inferno che al paradiso. Voglio dire che è illuminata in alto dalle luci dei lampioni, ma è scura in basso per le ombre dei relitti umani che durante l’intera notte occupano le sue panchine.

Erano le due di una notte d’estate, e Bughouse Square taceva, ormai quieta. Gli oratori improvvisati delle notti estive si erano allontanati, e la folla di vagabondi occasionali da un pezzo dormiva nelle proprie case: gli uomini dormivano sull’erba e sulle panchine. Avevano le stringhe delle scarpe ben legate con una serie di nodi robusti per assicurarsi che nessuno durante la notte gli portasse via le scarpe. Il possibile furto di denaro dalle loro tasche invece era l’ultima preoccupazione: non ne avevano. Ecco per che dormivano.

— Dio — disse Sweeney — ho voglia di bere. — E spinse indietro di due dita il poco pregevole cappello sulla sua testa altrettanto poco pregevole.

— Anch’io — disse Dio — ma non abbastanza per muovermi di qui.

— Adesso ricomincia la storia — brontolò Sweeney.

Dio sogghignò lievemente e rispose: — È vero, Sweeney. Lo sai benissimo. — Ed estratto di tasca un informe pacchetto di sigarette, ne diede una a Sweeney, accendendone un’altra per sé.

Sweeney aspirò profondamente: fissava la figura addormentata sulla panchina di fronte a lui, poi alzò un poco gli occhi alle luci di Clark Street. Aveva gli occhi appannati per l’ubriachezza, e le luci gli apparivano vaghe, per quanto sapesse che non lo erano in realtà. Non c’era un soffio d’aria ed egli si sentiva caldo e sudato, come il parco, come la città intera. Si tolse il cappello e si fece vento, poi un impulso di semiubriaco lo costrinse a tener fermo il cappello e a studiarlo attentamente. Tre settimane prima era stato un cappello nuovo: lo aveva comperato quando era ancora al “Blade”. Adesso aveva un’aria assurda, diversa da ogni altra cosa al mondo; ci era passata sopra un’automobile, era ruzzolato in un rigagnolo fangoso, ci si erano seduti e ci avevano camminato sopra. Era l’immagine di come si sentiva Sweeney.

Egli disse: — Dio — ma non si rivolgeva a Dio. Né d’altronde a nessun altro. Si rimise il cappello in testa e aggiunse: — Vorrei poter dormire — e, alzandosi dalla panchina: — Faccio quattro passi in giù. Vieni?

— Per perdere la panchina? — domandò Dio. — No. Credo che dormirò. Ci vediamo dopo. — E si accomodò di fianco sulla panchina, col braccio piegato sotto la testa.

Sweeney borbottò qualcosa e si allontanò verso Clark Street. Camminò nella notte giù per la strada, oltre Chicago Avenue. E, passando davanti ai bar, provò il desiderio di avere in tasca di che pagarsi da bere. Un poliziotto, passandogli accanto, lo salutò: — Ehi, Sweeney — e Sweeney rispose con un: — Ehi, Pete — ma non si fermò. Ripensava al ragionamento preferito da Dio, e pensandoci doveva ammetterlo: “Il vecchio pazzo ha ragione: non si riesce a ottenere quel che si desidera, se non lo si vuole con sufficiente intensità”. Avrebbe potuto facilmente farsi prestare da Pete un mezzo dollaro o un dollaro, se proprio avesse voluto bere. Forse domani il desiderio sarebbe stato così forte. Adesso ancora no, anche se si sentiva come una corda di violino accordata a un tono troppo alto. Dannazione, perché non aveva fermato Pete? Aveva bisogno di bere, bisogno di quei tre bicchieri d’alcol che lo portassero all’ultimo stadio dell’ubriachezza e gli permettessero finalmente di dormire. Quando aveva dormito l’ultima volta? Cercò di ricordarselo, ma le cose erano tutte confuse. E dove aveva dormito? Doveva essere stato in uno spiazzo sull’Huron ed era stato di notte, ma quale notte? Ieri o l’altro ieri o il giorno precedente? E ieri che cosa aveva fatto?

Passò davanti all’Huron e gli balenò la possibilità di arrivare al Loop, dove era probabile che qualcuno dei ragazzi del “Blade”, a zonzo per la piazza, gli prestasse qualcosa. Ma questa volta, durante la sbornia in corso, era già stato laggiù? Al diavolo la nebbia del suo cervello. Fino a che punto era «andato», adesso? Era ancora in condizioni tali da presentarsi al Loop?

Guardò lungo la fila delle vetrine, finché ne trovò una dove specchiarsi. Si studiò un poco e decise che non aveva poi un’aria troppo malconcia né troppo ubriaca. Il cappello era informe, non aveva cravatta e il vestito era naturalmente un cencio, però, tutto sommato… Si avvicinò di un passo alla vetrina e subito desiderò di non averlo fatto, perché così da vicino si vedeva nella nuda realtà: gli occhi arrossati e cisposi, la barba di tre o quattro giorni e il colletto della camicia disgustosamente sudicio. Il colletto di una camicia che una settimana prima era stata bianca. E scorgeva tutte le macchie sul vestito. Si voltò dall’altra parte e riprese a camminare. Ora sapeva di non potersi mostrare ai ragazzi del giornale, non al punto in cui era ridotto. Prima sì, quando aveva ancora un aspetto decente, o forse dopo, quando non gli sarebbe più importato nulla del suo aspetto. E, rendendosi conto che sarebbe arrivato senza rimedio a quel punto entro pochi giorni, si mise a imprecare contro se stesso, odiandosi e odiando di riflesso tutto e tutti al mondo.