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— Le altre due che facevano?

— Stella Gaylord era una entraîneuse di West Madison Street. La Lee era una segretaria privata.

— Privata fino a che punto? Del genere che deve sorvegliare le proprie condizioni fisiche, come sorveglia le virgole?

— Non lo so — sorrise Carey — di questo non ha parlato nessuno. Lavorava per un direttore della Reiss Corporation, di cui non ricordo il nome, ma che quel giorno comunque era in viaggio d’affari a New York.

Joe Carey guardò l’orologio, perché aveva finito di mangiare. Disse: — Questi sono i punti principali, Sweeney. Adesso non ho tempo di fermarmi ancora, debbo tornare al giornale.

— Benissimo — rispose Sweeney — in che ospedale è ricoverata la Lang?

— Al “Michael Reese”, ma non ti lasciano entrare a parlarle: ci sono poliziotti sparsi in tutti i corridoi. Anche Horlick ha cercato di andarci, ma non ci è riuscito.

— Non sai quando ricomincerà all’“El Madhouse”?

— No. Puoi chiederlo al suo agente, un tale che si chiama Doc Greene.

Carey si alzò, mentre Sweeney prendeva anche il suo conto. — Lo pago io. Però dimmi come potrei pescare questo tale. Qual è il nome di battesimo?

— Chi lo sa! Tutti lo chiamano Doc. Il cognome è Greene. Puoi trovarlo interrogando il padrone dell’“El Madhouse”. Credo che sia lui a occuparsi dei loro affari. Ciao.

Sweeney sorbì un sorso del caffè che aveva dimenticato di bere e che ormai era freddo. Rabbrividì di disgusto al sapore e uscì rapidamente dal ristorante.

Dopo una breve esitazione si diresse di nuovo al “Blade”, dove questa volta non si recò in redazione, ma in amministrazione, a incassare i suoi assegni e poi in archivio. Sfogliò i giornali di due mesi finché trovò quello che dava il resoconto dell’assassinio di Lola Brent. Comperò quel numero e i successivi per una settimana, oltre alle copie delle ultime edizioni dei dieci giorni precedenti. Era un fascio enorme di giornali, anche dopo che ne ebbe eliminato le edizioni domenicali, tanto che dovette prendersi un taxi per portarli a casa.

Quando fu arrivato, bussò alla porta della signora Randalclass="underline" le pagò i trentasei dollari di debito, e altre due settimane in anticipo. Quando finalmente fu giunto in camera, accomodò sul letto la pila dei giornali, per poi dedicarsi alla ricerca di Greene sull’elenco telefonico finché trovò un J.J. Greene, che alloggiava al “Goodman Block” ed era agente teatrale. Formò il numero e, dopo una breve discussione con una segretaria, ebbe al telefono il signor J.J. Greene.

— Sono Sweeney, del “Blade” — annunciò. — Potreste dirmi quando uscirà dal “Reese” la vostra cliente?

— Sono molto spiacente, signor Sweeney, ma la polizia mi ha proibito di dare qualunque informazione. Se volete sapere qualcosa, dovete chiederlo a loro. Scusatemi, siete voi che avete scritto il resoconto di oggi sul “Blade”?

— Sì: sono io.

— Un bell’articolo. E un’ottima pubblicità per Iolanda. Peccato che abbia un contratto già firmato per altre tre settimane all’“El Madhouse”, perché altrimenti alzerei subito i prezzi.

— Allora potrà riprendere a ballare prima di tre settimane?

— Se tutto va bene, entro tre giorni. È stata una sciocchezza.

— Potrei venire a parlarvi, signor Greene? Nel vostro ufficio, se volete.

— A parlare di che cosa? La polizia mi ha proibito di parlare con i cronisti.

— Anche se li incontrate per strada? Non ho mai incontrato un agente di teatro che rifiuti di parlare con un giornalista. Io potrei anche voler discutere della pubblicità per un altro vostro cliente e la polizia non avrebbe nulla da dire. O c’è qualcosa a vostro carico, personalmente?

Greene sogghignò. — Vi inviterei qua io stesso, anche se la polizia me lo proibisse. Ma debbo uscire entro venti minuti. Di solito vado a bere qualcosa in uno dei locali di cui mi occupo. Penso che oggi, mentre vado in città alta, potrei fermarmi all’“El Madhouse”. In questo caso, arriverei là fra mezz’ora. Se vi capitasse di entrarci…

— Dovrebbe proprio capitarmi — rispose Sweeney. — Grazie. A parte ogni indiscrezione, la signorina Lang è ancora all’ospedale?

— Sì, ma non riuscirete a parlarle, finché è là.

— Non ci proverò neppure, allora. Arrivederci.

Attaccò il ricevitore e si asciugò la fronte sudata col fazzoletto. Quando fu tornato nella sua stanza, per più di cinque minuti rimase seduto immobile. Appena gli parve di essere abbastanza in forze da poterlo tentare, si spinse fuori della poltrona e uscì di casa.

Il sole scottava, ed egli camminava lentamente. In State Street, ordinò da un fioraio due dozzine di American Beauties, da recapitare a Iolanda Lang all’ospedale. Poi faticosamente continuò a trascinarsi nel calore accecante, finché giunse all’“El Madhouse”, in Clark Street.

In quell’ora del tardo pomeriggio, non campeggiava ancora all’ingresso la solenne figura del portiere gallonato, dalla voce suadente; sarebbe comparso a mezzanotte, al momento in cui il solito spettacolo avrebbe avuto inizio. Però spiccavano i manifesti:

IOLANDA LANG E IL SUO DEMONIO NELLA FAMOSA «DANZA DELLA BELLA E LA BESTIA»

Naturalmente, insieme ai manifesti, c’erano le fotografie, ma Sweeney non si fermò a guardarle. Entrò rapido dalla strada assolata nell’oscurità fresca del bar, separato dalla sala con le tavole e il palcoscenico, dove una maggiore ricercatezza aumentava anche i prezzi.

In un primo momento si fermò come accecato, per il brusco passaggio dalla gran luce solare al semibuio delle luci al neon. Ammiccando, percorse con lo sguardò il bar, dove sedevano solo tre persone. All’estremità, un uomo troppo ubriaco ciondolava chino su una bionda grassoccia troppo sobria. A cinque o sei sgabelli di distanza, un altro tizio sedeva solo, scrutando la propria immagine riflessa nello specchio blu scuro dietro il banco, tra una bottiglia di birra e un bicchiere, posti davanti a lui. Sembrava scolpito nella pietra e Sweeney ebbe la certezza che non era Doc Greene. Si accomodò su un altro sgabello e subito il barista si accostò. — C’è Greene? — domandò Sweeney. — Doc Greene?

— Oggi non è ancora venuto. — Il barista andava pulendo il banco con uno straccio sudicio. — Qualche volta viene a quest’ora, ma oggi non so, con Iò all’ospedale…

— Iò — ripeté meditabondo Sweeney. — Mi piace. Gli dà un suono meridionale, ed è simpatico: Iò.

— Che cosa volete bere? — domandò il barista.

— Dunque — rispose Sweeney e ci meditò sopra: doveva cominciare a mangiare qualcosa, lentamente, per gradi, finché gli tornasse un normale appetito e la vista del cibo non gli desse la nausea. — Una birra con un uovo dentro, direi. — Il barista si allontanò per preparargliela e Sweeney si voltò, udendo la porta aprirsi. Sulla soglia stava un uomo con la faccia da luna piena, dove appariva un sorriso privo di significato, mentre esaminava il bar. I suoi occhi, dietro due spesse lenti rotonde, si fermarono su Sweeney e l’ampio sorriso si allargò ancora. Gli occhi dietro le lenti sembravano enormi. Apparivano nello stesso tempo vuoti e malvagi, come gli occhi di un rettile in un ingrandimento di cento volte, e vi sareste aspettati di vederli velati da una membrana ammiccante.

Sweeney, al di fuori, restò impassibile, ma dentro di lui qualcosa rabbrividì: per la prima volta, forse, in vita sua, odiò un uomo a prima vista. E sentì di temerlo anche, un poco. Era una strana fusione di vari elementi perché l’odio, tranne che in maniera molto astratta, era completamente ignoto a William Sweeney, e anche la paura non è uno stato normale per uno che ben di rado procura agli altri tanto male da doverne essere spaventato.