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Sweeney ringraziò e depose il ricevitore.

In camera sua guardò con nostalgia e desiderio il letto, ma sapeva benissimo che se si fosse sdraiato per dormire un’ora prima della partenza del treno, non sarebbe più riuscito ad alzarsi al suono della sveglia.

E se avesse rimandato la partenza fino alla sera, avrebbe perduto una giornata, proprio quando gli era più preziosa. Era già sabato e il lunedì mattina si sarebbe dovuto presentare al lavoro al “Blade” e, anche ammettendo che Wally gli affidasse il caso dello Squartatore, non gli avrebbe mai permesso di fare un viaggio a Brampton nei giorni di lavoro. Al massimo gli avrebbe concesso di andare a New York a controllare l’alibi di Greene. Se non si fosse verificato qualche fatto nuovo, avrebbe dovuto fare un volo sin là alla fine della settimana prossima durante il suo giorno di vacanza, e a sue spese. Ma quella non costituiva più una preoccupazione.

Un’ora prima, con i cento dollari che ancora gli erano rimasti in tasca, possedeva mille dollari. Adesso, dopo l’incontro con Dio, ne aveva ancora novecento. Rifletté che se gli fosse rimasto un briciolo di buon senso, con quella somma avrebbe potuto combinare qualcosa di buono e non se la sarebbe portata in giro tutta. Ma non aveva quel buon senso. Guardò di nuovo l’orologio e sospirò. Guardò la statuetta e imprecò contro di lei per essere così importante da fargli perdere il sonno per ritrovare la sua origine e parlare al suo creatore, con così poche speranze di rintracciarlo.

Andò a voltarla con la faccia verso il muro, per non udirne più il grido, ma anche vista così, ogni linea del suo corpo esprimeva il terrore. Per un attimo si immedesimò tanto in essa, che prese a considerare la possibilità dell’eutanasia. Ma anche spezzarla e distruggerla non avrebbe impedito che la statuetta in qualche altro luogo continuasse a urlare in silenzio.

Faticosamente, e con molte precauzioni per il suo stomaco dolorante, si spogliò. Fece un bagno, si rase la barba e indossò degli abiti puliti. Poi uscì per andare alla stazione, senza portare nulla con sé. Era presto ancora per il treno, ma aveva intenzione di fermarsi a bere un bicchierino per strada. Non per il piacere di bere, ma perché gli avrebbe permesso di dormire in treno, altrimenti la stanchezza gli avrebbe impedito anche di prendere sonno su una vettura normale. Avrebbe anche pagato il doppio, per andare su una vettura-letto, ma sapeva che non ce n’erano: le ferrovie hanno la strana opinione che la gente viaggi in posizione orizzontale solo durante la notte.

Per trovare un taxi, dovette arrivare in State Street, nella grigia alba quieta. Salì sulla macchina a breve distanza dalla stazione, che si sarebbe aperta verso le cinque. Si fermò a bere i suoi due bicchierini e poi anche un terzo, domandandosi se non fosse il caso di comperarne una bottiglia da portare con sé in treno. Ma non la comperò, perché bere troppo lo avrebbe tenuto sveglio.

Alle sei meno un quarto giunse alla stazione, sperando che il treno fosse già pronto. Infatti lo era e per fortuna aveva anche una vettura pullman, per la quale il bigliettario gli disse che non occorreva prenotazione, dato lo scarso affollamento. Non era in realtà affollata ed egli poté scegliere il posto più comodo. Si adagiò con cura e mise il biglietto sul tavolino accanto, in modo che il controllore non avesse bisogno di svegliarlo, stese le gambe, e depose il cappello sulla parte sofferente del suo corpo. Era un panama leggero e non gli dava fastidio. Comunque, se anche gliene dava, non se ne accorse, perché in un minuto era caduto addormentato. Dopo quasi due ore aprì per un attimo gli occhi, mentre il treno usciva da una stazione: era Milwaukee e stava piovendo. Riaprì gli occhi qualche minuto dopo mezzogiorno, e il treno era giunto a Rhinelander, dove il sole splendeva. E lui aveva una fame da lupo. Si recò al vagone ristorante e mangiò il pasto più abbondante che da settimane fosse riuscito a inghiottire. La seconda tazza di caffè era giusto alla fine, che il treno entrava a Brampton.

Prima di uscire dalla stazione, cercò sull’elenco telefonico il nome di Chapman Wilson: non ce n’era nemmeno uno. Sweeney si diresse allo sportello della biglietteria, dove domandò: — Sapete per caso dove abiti in città Chapman Wilson?

— Chapman Wilson?

— Sì.

— Mai sentito.

— Grazie.

Sweeney uscì dalla stazione e sostò a guardare la città. Doveva essere di circa cinquemila abitanti, calcolò rapidamente, e non doveva quindi essere molto difficile trovare una persona, anche se priva di telefono. Si trovava già sulla via principale, e alla sua sinistra cominciava subito il quartiere degli affari. Entrò nel primo negozio a domandare di Chapman Wilson. Buco nell’acqua. E così nel secondo, nel terzo, nel quarto. Neanche da parlarne del quinto e del sesto. Il settimo era un bar e, prima di porre la solita domanda, ordinò da bere. Quando lo servirono, fece la sua richiesta. Il liquore era buono, ma la risposta no. Mentre il barista se ne andava, Sweeney imprecò a se stesso. Se avesse capito male le parole del direttore della Ganslen Art Company? No, lo aveva detto chiaramente: «Un tale che si chiama Chapman Wilson, e vive a Brampton, nel Wisconsin. L’aveva modellata in creta». Per lo meno, era sicuro del «Chapman Wilson». Che avesse capito male la città? Chiamò di nuovo il barista.

— Nel Wisconsin c’è qualche altra città con un nome simile a Brampton?

— Come? Ah, sì, capisco. Un momento… c’è Boylston vicino a Duluth.

— Non è abbastanza simile.

— Stoughton? Burlington? Appleton? C’è anche Milton, ma il nome intero è Milton Junction.

Sweeney scosse il capo con tristezza. — Avete dimenticato Wisconsin Rapids e Stevens Point.

— Ma non somigliano a Brampton!

— Appunto! Datemi da bere, per favore.

— Certo, grazie.

— Ma non avete mai sentito parlare di un certo Chapman Wilson?

— No.

Sweeney bevve un sorso riflettendo. Si domandava se avrebbe potuto telefonare a Louisville a qualcuno della Ganslen Art. Ma non avrebbe trovato nessuno in un sabato pomeriggio. Gli sarebbe forse riuscito di ritrovare l’uomo che aveva parlato con lui, Burke? Sì, si chiamava Burke. Ma non era una grande idea.

Sweeney per tutto il resto della vita non ne andò affatto orgoglioso, ma fu proprio il cameriere che in quel momento salvò la situazione.

Chiese: — Ma cosa fa questo Chapman Wilson?

— Lo scultore, è pittore e scultore.

Per alcuni secondi non accadde nulla. Poi il cameriere esclamò: — Che sia dannato! Deve essere Charlie Wilson.

Sweeney lo fissò. — Non fermarti qui, Esmeralda. Continua.

— Continuo che cosa?

— A versarmi da bere. E poi parlami di Charlie. Scolpisce delle statuette?

Il barista si mise a ridere. — È proprio lui, Charlie lo svanito.

Sweeney si aggrappò con le mani all’orlo del banco. — Svanito? Matto? Uno che ha avuto a che fare con un rasoio?

— Rasoio?! Oh, voi parlate di quella faccenda. Ma era un coltello, non un rasoio.

— Una bionda, una magnifica bionda…

— Chi? La ragazza? Sì, era proprio così. Una delle più belle della città. Fino a che non l’hanno assalita con quel coltello.

Sweeney chiuse gli occhi e contò lentamente: uno, due… Non poteva essere vero. E lui era stato sul punto di tornarsene a Chicago.

Era troppo bello per essere vero. Non possono accadere cose così. Domandò: — Assalita? Come nell’affare dello Squartatore?

— Eh, sì, proprio. Proprio come in quella storia di Chicago che hanno detto alla radio.

— Non state parlando per caso di una statuetta nera? Volete proprio parlare di una donna vera, che è stata assalita qua, in città?

— Certo. Una bionda, come quelle che ha detto la radio, che erano a Chicago.