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Wally alzò la testa al suo ingresso. — Salve, Sweeney. Già passato da Crawley?

— No. Prima voglio mostrarti qualcosa — e cominciò a disfare il pacco.

— Va bene, però dopo va’ da Crawley. Stanotte hanno rubato a un rappresentante di commercio in gioielleria i suoi campioni e vogliamo arrivarci subito. È…

— Taci — interruppe Sweeney, allontanando la carta dal pacco e posando la statuetta sulla scrivania, davanti al capo redattore. — Wally, ti presento «La statua che urla».

— Piacere. Adesso togli di mezzo quella roba e…

— Taci — lo interruppe di nuovo Sweeney. — «La statua che urla» ha una sorella gemella. Una sola in tutta Chicago.

— Sweeney, che cosa stai almanaccando?

— Lo Squartatore. È lui che possiede la sorella della «Statua che urla». Noi possediamo questa, e non credere che vada in conto spese per una cifra minore del suo effettivo prezzo di vendita. Questo, naturalmente, sempre che tu voglia mandarla alla sezione fotografica e pubblicarne un ritratto in prima pagina oggi.

— Dici che lo Squartatore ne ha una copia? Sei sicuro?

— Nei limiti del possibile lo sono. Ce n’erano due a Chicago e lo Squartatore ne ha comperata una da Lola Brent proprio prima di ucciderla. Ed è probabilmente essa stessa il motivo ultimo della sua mania omicida! Prova a guardarla!

— E questa è l’unica altra esistente a Chicago?

— Sì — rispose Sweeney — se non ti interessa, la riporrò nel cassetto della scrivania e mi presenterò a Crawley. — Prese la statuetta e si diresse alla porta.

— Ehi! — urlò Wally.

Sweeney si fermò in attesa. — Wally — disse — io sono stufo marcio di questa faccenda dello Squartatore. Faresti bene a lasciarmi fuori. Naturalmente posso farti tutto il servizio per la prima edizione di oggi, ma non posso darti la statuetta comunque, se la vuoi, e uno qualunque dei ragazzi può rintracciarne la storia, come ho fatto io, attraverso Raoul Reynarde, e può darti il pezzo per domani o per l’ultima edizione di stasera. Io veramente…

— Sweeney, piantala di vaneggiare. Chiudi la porta.

— Certo, Wally. Da che parte?

Wally si limitò per tutta risposta a guardarlo e Sweeney giudicò di aver toccato il limite consentito e chiuse la porta dall’interno. Wally stava parlando al telefono con la cronaca, e abbaiava che per il gioielliere andasse un altro, perché Sweeney aveva un servizio speciale. Poi telefonò alla sezione fotografica e fu apparentemente soddisfatto di quel qualunque primo venuto che gli aveva risposto, perché diede l’ordine di presentarsi immediatamente a lui.

Poi si volse a Sweeney. — Metti giù quell’affare e con attenzione, prima che ti caschi in terra e si rompa.

Sweeney appoggiò la statuetta sulla scrivania. Wally la fissò attento, poi guardò Sweeney.

— Che cosa stai aspettando? Un bacetto di addio? Fila a fare il pezzo. Aspetta un momento, non subito. C’è un mucchio di tempo per la prima edizione: siediti e raccontami tutto. Ci può essere qualcosa che può fare un altro, mentre tu lavori.

Sweeney sedette e raccontò quasi tutta la vicenda. Tutto ciò che aveva intenzione di rivelare nell’articolo. Fu interrotto dall’arrivo del fotografo, al quale Wally affidò la statuetta, con precise istruzioni e minacce di orribili punizioni se essa fosse andata rotta prima di essere stata fotografata. Il fotografo uscì, camminando con precauzione e reggendo la statuetta come fosse stata un guscio d’uovo. Poi Sweeney riprese il suo racconto e lo terminò.

Wally concluse: — Bene. Adesso va’ a scriverlo. Credo però che tu non abbia fatto un gran bene ad avvertire la Ganslen di fabbricare le copie subito; alla polizia non andrà nulla a genio, perché vorranno avere in tutta Chicago una sola statuetta, finché sarà possibile. E anch’io sono di questo parere: anzi, ordinerò che questa copia venga distrutta appena sarà stata fotografata chiaramente. Mettilo nell’articolo, perché restringe il campo delle ricerche. Ma cosa diavolo volevi fare con quella telefonata alla ditta, per avvertirli?!

Sweeney si sentì a disagio: era stato un errore, certo, ed egli non voleva spiegarne i veri motivi riguardanti Charlie Wilson. Protestò debolmente. — Pensavo di doverli in qualche modo ripagare del favore che mi avevano fatto nella prima telefonata, dicendomi di averne venduto solo due a Chicago. Senza quello, Wally…

— Va bene — ammise Wally — li chiamerò io mentre tu scrivi la storia. Ecco, tu scrivi pure che la statuetta è stata fabbricata dalla Ganslen Art Company di Louisville e non avranno bisogno di mandare nessun rappresentante e nessun campione a Chicago e nella zona. Saranno sommersi di ordini per telefono, solo con le tue poche righe e la fotografia sul giornale. Ogni commerciante della zona gliela chiederà. Perciò adesso li chiamo e glielo dico. Con chi avevi parlato tu?

— Il direttore generale, quel Burke.

— Benissimo, lo dirò a Burke e lo pregherò di accettare, ma di tenere in sospeso tutti gli ordini di questa zona finché gli sarà possibile temporeggiare. E gli ripeterò di seguire il tuo consiglio di mettere il marchio segreto su ognuna delle copie. Ma questo non dirlo nell’articolo. E quando hai finito, portamelo qui, voglio passarlo io stesso.

Sweeney assentì e si alzò in piedi, mentre Wally continuava: — E farò un’altra cosa: telefonerò a Bline. Se pubblichiamo questa storia senza avvertirlo prima, diventeremo il numero uno della lista nera del dipartimento. Gli racconterò tutto e lo avvertirò che la pubblicheremo oggi, dopo averlo comunicato a lui.

— E se lui ne informa gli altri giornali?

— Non credo che lo farebbe. Se farà così, non vedrà né la statuetta né una sua fotografia, e la storia senza la fotografia serve a poco. Io penso di metterla in mezzo alla prima pagina, su quattro colonne.

— Devo dire che pubblichiamo la fotografia a colori, dal vero… cioè in nero?

— Va’ all’inferno, fuori di qui!

Sweeney andò all’inferno fuori di lì e sedette alla sua scrivania. Mentre infilava il foglio nella sua vecchia Underwood, pensò che le idee di Wally erano state buone; raccontare la storia alla polizia due ore prima non avrebbe nociuto, né avrebbe nociuto alle vendite della Ganslen (e ai guadagni di Charlie) il non evadere gli ordini provenienti da Chicago per una settimana o poco più. Il racconto sarebbe rimasto sempre interessante e sarebbe migliorato se avesse dato come risultato la cattura dello Squartatore.

Guardando l’orologio, scoprì di avere un’ora a disposizione per scrivere il pezzo e partì a battere sui tasti. Il suo telefono suonò: era Wally.

— Hai abbastanza tempo? — domandò. — O vuoi uno stenografo per dettare e far più in fretta?

— No, ce la faccio da solo.

— Benone. Mandami il pezzo man mano che esce dalla macchina, una pagina per volta. Ti metto un fattorino alla scrivania. Intitola «La statua che urla».

Sweeney intitolò «La statua che urla» e attaccò a scrivere. Un minuto dopo, un ragazzino gli soffiava nel collo il suo respiro, ma Sweeney ci era abituato e non ne provava più fastidio. Spedì l’ultima cartella dieci minuti prima che l’edizione andasse in macchina.

Accese una sigaretta e finse di essere molto occupato, così che Crawley non gli trovasse qualche altro lavoro da fare. Quando il trambusto della chiusura dell’edizione fu cessato e giudicò che Wally dovesse essere libero di nuovo, tornò all’ufficio del direttore.

— Come sta la «Statua che urla»? — domandò.

— È una donna finita. Se non ci credi, guarda nel cestino della carta.

— Preferisco di no — replicò Sweeney.

Entrò un ragazzetto con un fascio di giornali, che depose sulla scrivania di Wally. Sweeney ne prese uno e guardò la prima pagina: c’era la statuetta, un poco più grande del vero. Quattro colonne per la fotografia, due di testo. Wally stesso aveva fatto i sottotitoli.