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“Sei un vero bastardo” pensa Kay, che risponde: «Se la polizia mi interpella, è perché vuole conoscere la causa del decesso. Come lei certamente saprà, la legge è stata modificata alla fine degli anni Novanta, dopo il caso di un uomo che sparò a una gravida, la quale sopravvisse ma perse il bambino. Nel caso che lei ha esposto, io effettuerei l’autopsia sul feto. Per il certificato di morte userei il modulo giallo, perché il feto è nato morto, ma scriverei che la morte è sopravvenuta a livello intrauterino a causa delle violenze subite dalla madre. Archivierei inoltre copia del modulo con la pratica, perché il Bureau of Vital Records, una volta completate le sue statistiche, distrugge la documentazione».

«E cosa farebbe del feto?» domanda Marcus, molto meno rispettoso di prima.

«Chiederei ai familiari.»

«È un esserino di nemmeno dieci centimetri di lunghezza: non resterebbe niente da seppellire!» ribatte lui in tono sprezzante.

«Be’, allora lo metterei in formalina. Ma lo darei ai familiari, perché ne facciano quello che vogliono.»

«E lo definirebbe un omicidio» ribadisce freddo.

«La legge stabilisce che qualsiasi atto di violenza volto a uccidere un familiare è un reato punibile con la pena capitale. Anche se non si riuscisse a dimostrare l’intento omicida, permane il reato di atti di violenza sulla madre, anch’esso punibile con la morte. Qualora venisse dimostrato che non vi era intenzione di uccidere, si tratterebbe comunque di omicidio colposo o preterintenzionale. Il fatto che il bambino non fosse ancora nato è irrilevante.»

«Obiezioni?» chiede Marcus al suo staff. «Commenti?»

Nessuno risponde, nemmeno Fielding.

«Bene, passiamo a un altro caso» insiste Marcus con un sorriso maligno.

“Come vuoi” pensa Kay. “Te la faccio vedere io.”

«Un giovane ricoverato in un centro riservato ai malati terminali che sta morendo di AIDS chiede al medico di staccare la spina» inizia Marcus. «Se il medico lo accontenta, sul paziente dev’essere effettuata autopsia? Esiste l’ipotesi di omicidio? Dottoressa, ci dia il suo parere.»

«A mio avviso, è morte naturale, a meno che il medico non pianti una pallottola nella testa del paziente» risponde lei.

«Dunque lei è favorevole all’eutanasia…»

Kay Scarpetta non gli risponde nemmeno. «Il consenso informato pone diversi problemi. Spesso a darlo è un paziente depresso, che in quanto tale non è in grado di prendere decisioni meditate. È una questione che andrebbe affrontata a livello sociale…»

«Mi scusi, forse non ho capito bene» la interrompe Marcus.

«Che cosa non ha capito?»

«Abbiamo un malato terminale che un bel giorno si sveglia e decide di morire. Secondo lei il suo medico deve lasciarlo fare?»

«I malati terminali hanno questo diritto» risponde Kay Scarpetta. «Possono decidere di morire comunque: avendo accesso alla morfina per combattere il dolore, possono chiederne un po’ di più e morire nel sonno. Hanno diritto di indossare il bracciale con la scritta DO NOT RESUSCITATE e rifiutare la rianimazione. E, in questi casi, nessuno deve rispondere di nulla.»

«Il nostro caso, però, è un po’ diverso» insiste Marcus, stizzito.

«I malati terminali hanno diritto a un’adeguata terapia del dolore e a morire in pace» risponde Kay Scarpetta. «La legge prevede la possibilità di indossare un braccialetto per non essere rianimati e di rifiutare l’accanimento terapeutico. Un malato terminale che muore di overdose di morfina o perché rifiuta il respiratore o la rianimazione non deve essere portato in un Istituto di medicina legale. E, se ci arriva, il direttore deve rimandarlo indietro.»

«Commenti?» chiede Marcus radunando i propri fogli e preparandosi a uscire.

«Sì» interviene Marino. «Ha mai pensato di tenere una rubrica su Jeopardy, dottor Marcus?»

5

Benton Wesley passeggia da una finestra all’altra della sua casa di Aspen. La voce che gli sta parlando al cellulare va e viene.

«Come hai detto? Scusa, puoi ripetere?» Fa tre passi indietro e, nel sentire più chiara la voce di Marino, si ferma.

«Ho detto che non è tutto. La situazione è molto più complicata. Secondo me, quel bastardo voleva farle fare una figura di merda. Non ci è riuscito, naturalmente, però…»

Benton osserva la neve che si è raccolta sui pioppi e sugli abeti. È la prima bella mattina di sole da diversi giorni e le gazze volano di ramo in ramo. Benton ne segue i movimenti e cerca di capire il motivo di tanta attività, sforzandosi di trovare un rapporto di causalità biologica in quello svolazzare apparentemente senza senso. Come se la cosa avesse importanza… Ma forse il suo è un riflesso condizionato.

«Lo immagino» risponde con un sorriso. «Ma non credo che l’abbia provocata per scelta: deve aver ricevuto ordini dall’alto. C’è dietro il commissario alla Sanità.»

«E tu come fai a saperlo?»

«Dopo che mi ha detto dove andava, ho fatto una telefonata.»

«Peccato che non sia potuta venire ad Asp…» Marino si zittisce improvvisamente.

Benton si avvicina all’altra finestra, dando le spalle al caminetto acceso, e guarda fuori: stavolta si concentra sulla casa dall’altra parte della strada, forse perché il portone si sta aprendo e stanno uscendo un uomo e un ragazzo in tenuta da sci, con il fiato che gli si condensa nell’aria.

«Penso che ormai se ne sarà accorta» osserva Benton. «Che la stanno sfruttando, intendo dire.» Conosce Kay Scarpetta abbastanza bene da prevedere le sue reazioni. «Ti assicuro che conosce la politica e capisce quando certe mosse sono politiche. Purtroppo non si tratta solo di questo. Mi senti?»

Osserva l’uomo e il ragazzo che si allontanano lentamente con gli sci in spalla, le racchette in mano e gli scarponi mezzi slacciati. Benton non va a sciare, in questo periodo: ha troppo da fare.

«Eh?» Marino ha preso l’abitudine di dire spesso “Eh?”, e lui lo trova irritante.

«Mi senti?» ripete.

«Sì, adesso ti sento» risponde Marino, e Benton capisce che si sta spostando in cerca di un punto in cui ci sia più campo. «La tratta come una pezza da piedi, manco non l’avesse chiamata lui per farsi dare una mano. Non so dirti altro, per adesso. Appena ne so un po’ di più ti richiamo. Della ragazza, intendo dire.»

Benton sa di Gilly Paulsson. Della sua morte misteriosa non si è parlato sulla stampa nazionale, ma lui sa navigare in Internet e può accedere a informazioni molto riservate. Qualcuno sta sfruttando anche Gilly Paulsson. Certa gente, oltre che dei vivi, approfitta anche dei morti.

«Ti ho perso di nuovo… Uffa!» esclama. Riuscirebbero a parlare molto meglio, se potessero usare il telefono fisso. Ma non si può.

«Io ti sento, capo» dice la voce di Marino, improvvisamente chiarissima. «Perché non mi chiami dal fisso? Almeno ci sentiremmo…» dice, come se gli avesse letto nel pensiero.

«Meglio di no.»

«Pensi di avere il telefono sotto controllo?» Marino non scherza. «Puoi accertarlo, se hai questo dubbio. Chiedi a Lucy.»

«Grazie del suggerimento.» Benton non ha bisogno dell’aiuto di Lucy per questo tipo di cose, e non è di cimici e microspie che ha paura.

Segue con lo sguardo l’uomo e il ragazzo che vanno a sciare e pensa a Gilly Paulsson. Il ragazzo in tenuta da sci deve avere l’età che aveva Gilly quando è morta: tredici, quattordici anni. Solo che Gilly non è mai andata a sciare. Non è mai stata in Colorado, né da nessun’altra parte. È nata, vissuta e morta a Richmond e nella sua breve vita ha sofferto molto. Benton nota che si sta alzando il vento, che soffia via la neve dagli alberi come sbuffi di fumo.

«Vorrei che le dicessi questo» continua. Sottolinea il “le” perché Marino capisca che si riferisce a Kay. «Il suo successore, se vogliamo chiamarlo così…» Si interrompe. Non vuole fare il nome di Marcus o entrare nei dettagli, ma gli dà fastidio definire quel verme di Joel Marcus “il successore” di Kay Scarpetta. «… è una persona interessante» dice criptico. «Quando mi raggiungerà, le spiegherò più diffusamente perché. Per ora, raccomandale la massima prudenza.»