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— È vero. — L'ammissione della dottoressa lo irritò ancor di più.

— Cosa stavate pensando…

— Di aiutare. Stavamo pensando solo di aiutare. Guardi… — Indicò la finestra e Tom guardò.

L'uomo con la faccia di Lou… ma non con la sua espressione… completò il suo schema e alzò gli occhi con un sorriso alla terapista che gli sedeva davanti. Lei parlò… Tom non poté sentire le parole attraverso il vetro, ma poté vedere la reazione di Lou, una risata allegra e uno scuotere la testa appena abbozzato. Un gesto così incongruo da parte di Lou, così stranamente normale che a Tom si mozzò il fiato.

— I suoi rapporti sociali sono già più normali. Il paziente è facilmente motivato da segnali sociali, gli piace stare in compagnia. Sta sviluppando una personalità davvero affascinante, benché a questo punto sia ancora infantile. Si stanno normalizzando anche le sue elaborazioni degli stimoli sensoriali: l'estensione delle sue preferenze quanto a temperature, strutture, sapori eccetera è adesso entro limiti normali. Il suo uso del linguaggio è ogni giorno migliore. Man mano che le sue funzioni si ristabiliscono noi andiamo abbassando le dosi di ansiolitici.

— Ma i suoi ricordi…

— Ancora su questo non si può dir niente. La nostra esperienza nel restituire i ricordi perduti alla popolazione psicotica suggerisce che le due tecniche che usiamo sono efficaci… fino a un certo punto. Abbiamo effettuato registrazioni multisensoriali, capisce, e queste verranno reinserite. Per ora ne abbiamo bloccato l'accesso con un agente biochimico specifico… è brevettato, perciò non mi chieda nemmeno di che si tratta… che filtreremo via nelle prossime settimane. Vogliamo avere la sicurezza di poter contare su un substrato di elaborazione e integrazione sensoriale completamente solido prima di far questo.

— Così lei non sa se sarà in grado di restituirgli la sua vita passata?

— No, ma nutriamo delle speranze. E dopo tutto il paziente non starà peggio di chi perde la memoria a causa di un trauma. — Quello che avevano fatto a Lou si poteva davvero chiamare trauma, pensò Tom. La dottoressa Hendricks continuò: — Dopo tutto una persona può adattarsi e vivere la propria vita anche senza memoria del proprio passato, purché riesca a riacquistare le facoltà che gli permettono di funzionare indipendentemente e di relazionarsi alla società.

— Cosa mi dice delle sue capacità cognitive? — riuscì a dire Tom con voce quasi calma. — Mi sembrano molto compromesse in questo momento, e Lou prima possedeva un'intelligenza quasi geniale.

— Questo proprio non lo credo — disse la dottoressa. — Secondo i nostri test aveva in effetti un'intelligenza al di sopra della media, quindi anche se dovesse perdere dieci o venti punti non vedrebbe messe in pericolo le sue possibilità di condurre una vita indipendente. Però il paziente non era un genio, assolutamente no. — La sicurezza sussiegosa della sua voce, quel gelido deprezzamento del Lou che Tom aveva conosciuto gli sembrarono peggiori di una crudeltà deliberata.

— Lei lo conosceva prima? Conosceva qualcuno di loro? — domandò.

— No, naturalmente no. Li ho incontrati una volta, ma non sarebbe stato opportuno da parte mia conoscerli personalmente. Ho però i risultati dei loro test, e le interviste e le registrazioni dei ricordi sono tuttora in possesso dell'equipe psichiatrica della riabilitazione.

— Era un uomo straordinario — disse Tom. Guardò il volto della donna e non ci vide altro che orgoglio di quanto stava facendo e impazienza per essere stata interrotta. — Spero che tornerà a esserlo.

— Per lo meno non sarà autistico — concluse lei, come se questo giustificasse ogni cosa.

Tom stava per dire che l'autismo dopo tutto non era la cosa peggiore del mondo, ma tacque. Era inutile discutere con una persona come la dottoressa, almeno non lì e non in quel momento, e comunque ormai per Lou era troppo tardi. Quella donna rappresentava per Lou la migliore speranza di recupero… il pensiero gli provocò un brivido involontario.

— Lei dovrebbe tornare quando il paziente starà meglio — disse ancora la dottoressa Hendricks. — Allora potrà apprezzare al suo giusto valore il lavoro che abbiamo realizzato. La chiameremo. — Lo stomaco di Tom si sollevò a quell'idea, ma lo doveva a Lou.

Fuori, Tom si chiuse il cappotto e infilò i guanti. Lou sapeva che era inverno? Nell'ala riservata a lui e ai suoi compagni Tom non aveva visto finestre che si affacciassero all'esterno. Quel pomeriggio grigio che si avviava all'imbrunire, con il cielo chiuso e le strade coperte di fanghiglia sudicia, si intonava al suo umore.

Maledisse la ricerca medica per tutta la strada fino a casa.

Sono seduto a un tavolo e davanti a me c'è un'estranea, una donna in camice bianco. Ho l'impressione di essere stato qui molto a lungo, ma non so perché. È come pensare a qualche altra cosa quando guidi e di colpo trovarti a una ventina di chilometri di distanza senza sapere per dove sei passato.

È come riprendersi da uno stordimento. Non so bene dove sono e cosa sto facendo.

— Chiedo scusa — dico — devo aver perso il filo per un momento. Potrebbe ripetere, per favore?

Lei mi guarda stupita, poi i suoi occhi si spalancano.

— Lou, ti senti bene?

— Mi sento benissimo — dico. — Magari sarò un poco confuso.

— Sai chi sei?

— Naturalmente — dico. — Sono Lou Arrendale. — Non so perché la donna pensi che non sappia il mio nome.

— Sai dove ti trovi?

Mi guardo intorno. Lei porta un camice bianco; la stanza ha l'aria di essere un ambiente tipico di una clinica o di una scuola. Non ne sono sicuro.

— Non esattamente — dico. — Qualche genere di clinica?

— Sì — dice lei. — Sai che giorno è oggi?

Di colpo mi rendo conto di non sapere che giorno sia. C'è un calendario sulla parete, e un grande orologio, ma benché il mese indicato sia febbraio, non mi pare giusto. Il mio ultimo ricordo è di una giornata d'autunno.

— No — dico. Sto cominciando a sentirmi impaurito. — Cosa è successo? Mi sono ammalato, ho avuto un incidente o che cosa?

— Hai avuto un'operazione al cranio — spiega lei. — Ricordi qualcosa in proposito?

No. C'è una nebbia densa nella mia testa quando cerco di pensarci, una nebbia scura e pesante. Mi tasto il capo. Non fa male. Non avverto alcuna cicatrice. I miei capelli ci sono tutti.

— Come ti senti? — domanda la donna.

— Terrorizzato — dico. — Voglio sapere cos'è avvenuto.

Sono stato in piedi e ho camminato, mi dicono, per un paio di settimane: andavo dove mi dicevano, sedevo dove mi dicevano. Adesso sono conscio di questo: ricordo la giornata di ieri, benché i giorni precedenti siano nebulosi.

Nel pomeriggio sono sotto trattamento fisioterapico. Sono rimasto a letto per settimane, senza poter camminare, e questo mi ha indebolito. Adesso mi vado rinforzando.

È noioso camminare avanti e indietro nella palestra. C'è anche una serie di gradini con una ringhiera, per esercitarsi a salire e scendere le scale, ma anche questo ben presto diventa noioso. Missy, la mia fisioterapista, suggerisce che giochiamo a palla. Io non ricordo come si fa, ma lei mi dà una palla e mi chiede di lanciargliela. Lei sta seduta a poca distanza. Le lancio la palla e lei me la rilancia. È facile. Mi sposto all'indietro e le lancio di nuovo la palla. Anche questo è facile. Missy mi mostra un bersaglio con un campanello che dovrà squillare se faccio centro. È facile centrarlo da tre metri; da sei metri sbaglio poche volte, poi lo centro sempre.