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È un pavimento di mattonelle di vinile grigio pallido con screziature di un grigio più scuro; è un tavolo di materiale sintetico con nervature che imitano il legno; è la mia scarpa che sto fissando, cercando di eliminare dalla mia coscienza l'attraente struttura del tessuto di canapa e vedendola come una scarpa con sotto il pavimento. Mi trovo nella stanza delle terapie. Sono Lou Arrendale che una volta era Lou Arrendale l'autistico e adesso è Lou Arrendale lo sconosciuto. Il mio piede nella mia scarpa è sul pavimento è sulle fondamenta è sul terreno è sulla superficie di un pianeta è nel sistema solare è nella galassia è nell'universo è nella mente di Dio.

Alzo gli occhi e vedo il pavimento allungarsi fino alla parete; ondeggia e si stabilizza, si estende piatto come i muratori lo hanno costruito, ma non perfettamente piatto; eppure ciò non importa, perché viene chiamato piatto per convenzione. Io faccio in modo che sembri piatto. Questo significa piatto. Non è un concetto assoluto, un piano: una cosa piatta è solo abbastanza piatta.

— Stai bene? Lou… per favore, rispondimi!

Io sto bene abbastanza. - Sto benissimo — dico a Janis. Bene significa "abbastanza bene" non "perfettamente bene". Lei sembra sbigottita. Le ho fatto paura. Non volevo farle paura. Quando s'incute spavento a qualcuno, bisognerebbe rassicurarlo. — Chiedo scusa — dico. — È stato solo uno di quei momenti.

Janis si rilassa un po'. Io mi siedo, poi mi alzo. Le pareti non sono proprio diritte, ma sono abbastanza diritte.

Io sono abbastanza Lou. Il Lou di prima e il Lou di adesso. Il Lou di prima che mi regala tutti i suoi anni di esperienza, esperienza che non sempre riusciva a capire, e il Lou di adesso che valuta, interpreta, comprende. Io possiedo tutti e due… sono tutti e due.

— Devo star solo per un poco — dico a Janis. Lei sembra di nuovo preoccupata. So che si preoccupa per me; so che non approva per qualche ragione.

— Tu hai bisogno dell'interazione umana — mi spiega.

— Lo so — dico. — Ma ce l'ho per ore e ore al giorno. In questo momento ho bisogno di esser solo per comprendere a fondo ciò che è accaduto.

— Parlamene, Lou — mi esorta lei. — Dimmi cos'è accaduto.

— Non posso — dico. — Mi è necessario un po' di tempo… — Faccio un passo verso la porta. Il tavolo cambia forma mentre lo costeggio; cambia forma il corpo di Janis; le pareti e la porta ondeggiano verso di me come ubriachi in una commedia… dove l'ho vista? Come faccio a saperlo? Come posso ricordare questo e venire a patti anche con questo pavimento che è solo abbastanza piatto, ma non veramente piatto? Con uno sforzo rendo di nuovo piatte pareti e porta; la tavola elastica torna a riassumere la forma rettangolare che io dovrei vedere.

— Ma Lou, se hai problemi con la percezione sensoriale, i dottori potrebbero dover regolare di nuovo le dosi di…

— Starò benone — la rassicuro senza guardarmi indietro. — Ho solo bisogno di una pausa. — Argomento finale: — Ho bisogno di andare al bagno.

So… ricordo da chissà dove… che quanto è avvenuto implica l'integrazione sensoriale e l'elaborazione degli stimoli visivi. Camminare è strano. So che sto camminando, sento le mie gambe muoversi senza difficoltà. Ma ciò che vedo è una successione di movimenti bruschi, una serie di passaggi da una posizione a un'altra. Ciò che sento è un rumore di passi e un'eco di passi che rimbalzano da una parete all'altra.

Il Lou di prima mi dice che non era così, non lo era più da quando era molto piccolo. Il Lou di prima mi aiuta a focalizzarmi sulla porta del bagno degli uomini e a passarci attraverso, mentre il Lou di adesso fruga ansiosamente tra ricordi di conversazioni udite e libri letti nel tentativo di trovare qualcosa che lo aiuti.

Il bagno degli uomini è tranquillo, non c'è nessuno. Bagliori di luce ammiccano ai miei occhi dalle sagome lisce e curvilinee degli impianti sanitari di ceramica bianca, dalla rubinetteria e dai tubi di metallo lucido. In fondo ci sono due cubicoli; entro in uno di essi e chiudo la porta.

Il Lou di prima osserva le mattonelle del pavimento e delle pareti e vorrebbe calcolare il volume dell'ambiente. Il Lou di adesso vuole sprofondare in un nido buio e caldo e non emergerne fino al mattino.

Ma è mattina. È ancora mattina e noi… io… non abbiamo ancora pranzato. La persistenza degli oggetti. Ciò di cui ho bisogno è la persistenza degli oggetti. Il Lou di prima lesse qualcosa su questo argomento in un libro… un libro che ha letto, un libro che io non ricordo bene, però lo ricordo… e adesso mi torna in mente. I neonati non l'hanno, ma l'acquistano col tempo. Le persone cieche dalla nascita, se viene loro ridonata la vista, non riescono ad acquistarla: vedono i tavoli passare da una sagoma all'altra a seconda del punto di vista da cui li guardano.

Io non sono cieco dalla nascita. Il Lou di prima aveva acquisito la persistenza degli oggetti nella sua elaborazione degli stimoli visivi. Posso averla anch'io. L'avevo anzi, finché non ho cercato di leggere quella storia…

Posso sentire il battito del mio cuore rallentare e ridiventare regolare. Mi chino in avanti e guardo le mattonelle del pavimento. In realtà non m'importa di quale formato siano e del calcolo dell'area del pavimento o del volume dell'ambiente. Potrei calcolarli se fossi intrappolato qui e mi annoiassi, ma in questo momento non mi sto annoiando. Sono confuso e preoccupato.

Non so cosa sia successo. Ho avuto un'operazione al cervello? Ma non ho cicatrici, non mi hanno rasato alcuna parte dello scalpo. È stato un caso di emergenza?

L'emozione mi pervade: paura e poi collera, e con essa la bizzarra sensazione che mi sto gonfiando e poi sgonfiando. Quando sono arrabbiato, mi sento più alto e le altre cose paiono più piccole; quando sono impaurito mi sento più piccolo e le altre cose paiono più grandi. Mi balocco con queste emozioni ed è davvero strano percepire il minuscolo cubicolo cambiare dimensioni intorno a me. Non è possibile che le cambi davvero. Ma se fosse così, come farei a saperlo?

Una musica m'inonda la mente all'improvviso, una musica di pianoforte. Dolce, scorrevole, costruita in frasi ordinate… Chiudo gli occhi e di nuovo mi rilasso. Mi sovviene un nome: Chopin. Uno studio… no, lascia fluire la musica, non pensare.

Faccio scorrere le mani su e giù per le braccia, per sentire la struttura della pelle, l'elasticità della peluria. È un gesto calmante, ma non c'è bisogno che continui a farlo.

— Lou! Sei qui? Stai bene? — È Jim, l'inserviente che per tanti giorni si è preso cura di me. La musica si dilegua ma posso sentirla fluire ancora sotto la mia pelle. Mi distende.

— Sto bene — rispondo. Sento che la mia voce è calma. — Avevo solo bisogno di una pausa, tutto qui.

— Meglio che tu venga fuori, amico — dice lui. — Di là stanno cominciando a dare i numeri.

Sospiro, mi alzo e apro la porta. La persistenza degli oggetti le fa conservare la sua forma mentre esco; le pareti e il pavimento rimangono piatti com'è loro dovere, e l'ammiccare della luce sulle superfici che la riflettono non mi disturba. Jim mi sorride. — Allora tutto bene, amico?

— Benone — dico. Il Lou di prima amava la musica. Adoperava la musica per conservare il proprio equilibrio… Mi domando quanta della musica amata dal Lou di prima potrò ancora ricordare.

Janis e la dottoressa Hendricks stanno aspettando nel corridoio. Sorrido a tutt'e due. — Sto benissimo — ripeto. — Davvero avevo solo bisogno di andare al bagno.

— Ma Janis dice che sei caduto — dice la dottoressa.

— Oh, è stato solo un problema di poca importanza — spiego. — Stavo leggendo una storia piuttosto confusa, e riflettere su quella confusione… mi ha confuso le sensazioni, comunque adesso è tutto passato. — Guardo su e giù per il corridoio per assicurarmene. Tutto a posto. — Vorrei parlarle di quanto è accaduto in realtà — dico alla dottoressa. — Mi hanno parlato di operazioni al cranio, ma non ho alcuna cicatrice visibile. E ho bisogno di sapere cosa sta succedendo nel mio cervello.