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Cameron estrae dalla tasca un prospetto e lo spiega sul tavolo. Ci è vietato anche portar fuori documenti dal campus, per paura che possano cadere in mani sbagliate, però è una cosa che facciamo tutti. Molte volte è arduo parlare, mentre è tanto più facile scrivere ciò che si vuole spiegare o fare un disegno.

Sul prospetto riconosco gli schemi che Cameron ha collegato con una ricursione parziale che ha l’eleganza sobria di molte delle sue soluzioni. Tutti quanti li guardiamo e facciamo cenno di sì con la testa. — Molto bello — dice Linda. Le sue mani accennano un movimento di lato. Se fossimo al campus agiterebbe le braccia a mulinello, ma qui lei cerca di non farlo.

— Davvero — assente Cameron, e rimette in tasca il prospetto.

So che questo scambio di opinioni tra noi non piacerebbe alla dottoressa Fornum. Lei avrebbe voluto che Cameron spiegasse il prospetto, benché il suo significato sia chiaro a tutti noi; avrebbe voluto che noi facessimo domande, commentassimo, parlassimo del lavoro. Invece non c’è proprio nulla di cui parlare: tutti noi abbiamo visto perfettamente qual era il problema e sappiamo che la soluzione di Cameron è ottima sotto tutti i punti di vista. Qualunque altra aggiunta sarebbe solo fiato sprecato, e tra noi questo proprio non è necessario.

— Io mi stavo chiedendo quale sia la velocità del buio — dico abbassando gli occhi. Tutti si volgeranno a me, anche se per poco, e non voglio vedermi addosso i loro sguardi.

— Non ha una velocità — risponde Eric. — È solo uno spazio dove non c’è la luce.

— Cosa succederebbe se uno mangiasse una pizza in un mondo con una gravità maggiore di uno?

— Non lo so — dice Dale con aria preoccupata.

— La velocità della non conoscenza — commenta Linda.

Cerco d’interpretare ciò che lei ha voluto dire e ci riesco. — La non conoscenza si espande più velocemente della conoscenza — dico. Linda sorride e fa cenno di sì con la testa. — Quindi la velocità del buio potrebbe essere maggiore di quella della luce. Se davvero deve esserci sempre buio intorno alla luce, il buio deve trovarsi là prima della luce.

— Adesso voglio andare a casa — dice Eric. La dottoressa Fornum probabilmente vorrebbe che io gli domandassi se si è annoiato, ma io so che non lo è: vuole andare a casa perché è l’ora del suo programma favorito in TV. Ci salutiamo e io ritorno al campus. Voglio guardare ancora le mie girandole e le mie spirali occhieggiare per un poco, prima di tornare a casa a dormire.

Io e Cameron siamo in palestra e ci scambiamo qualche parola mentre rimbalziamo sui trampolini. Abbiamo fatto molto buon lavoro negli ultimi giorni e ci stiamo rilassando.

Joe Lee entra e io guardo Cameron. Joe Lee ha solo ventiquattro anni e sarebbe stato uno di noi se non gli fossero stati fatti i trattamenti che sono stati sviluppati troppo tardi per aiutarci. Lui pensa di essere uno di noi perché sa che lo sarebbe stato e possiede alcune delle nostre caratteristiche: infatti, per esempio, è molto bravo nelle astrazioni e nelle incursioni, gli piacciono alcuni dei nostri giochi, gli piace la nostra palestra. Però è assai più bravo nell’abilità d’interpretare i pensieri e le espressioni: i pensieri e le espressioni dei normali, intendo. Non sa farlo bene con noi, che siamo dopo tutto i suoi affini più stretti.

— Ciao, Lou — mi dice. — Ciao, Cam. — Vedo Cameron irrigidirsi. Lui odia sentir accorciare il suo nome e lo ha detto parecchie volte a Lee, che però se ne dimentica perché passa troppo tempo con i normali.

— Avete sentito? — domanda Joe Lee, e continua senza aspettare una risposta. — Qualcuno sta elaborando una procedura per annullare l’autismo. Pare abbia funzionato con i ratti e adesso la stanno provando sui primati. Scommetto che tra non molto voi ragazzi potrete diventare normali come me.

Joe Lee ha sempre detto che lui è uno di noi, ma le sue parole rivelano chiaramente che non lo ha mai creduto davvero. Noi siamo "voi ragazzi" e i normali sono "come me".

Cameron si acciglia e posso quasi sentire il groviglio di parole che gli gonfia la gola e che gli rende impossibile parlare. Parlerò io.

— Quindi tu ammetti di non essere uno di noi — dico, e Joe Lee sobbalza mentre il suo viso assume un’espressione che, mi hanno detto, significa "essere contrariati".

— Come puoi dire una cosa simile, Lou? Sai bene che è solo il trattamento…

— Se tu restituisci l’udito a un bambino sordo, lui non apparterrà più alla categoria dei sordi — dico. — E se fai questo abbastanza presto, lui non sarà stato mai sordo. — La mia voce adesso si è fatta fredda e meccanica. Da come la sento io potrebbe sembrare che sono adirato, invece ho solo paura, paura di non farmi capire. — Tu sei stato curato prima che nascessi, Joe. Non hai vissuto neanche un giorno come uno di noi.

— Ti sbagli — dice lui, interrompendomi. — Dentro sono proprio come voi, tranne che…

— Tranne ciò che ti rende diverso dagli altri, quelli che chiami normali — dico io, interrompendo a mia volta. La signorina Finley, una delle mie terapiste, mi dava schiaffetti sulle mani quando interrompevo. Io però non posso sopportare che Joe continui a dire cose che non sono vere. — Tu potevi sentire e interpretare il linguaggio dei suoni, hai imparato a parlare normalmente. I tuoi occhi vedevano normalmente.

— Sì, ma il mio cervello lavora come il vostro.

Scuoto la testa. Joe Lee dovrebbe saperlo, glielo abbiamo spiegato tante volte. I problemi che noi abbiamo con la vista, l’udito e gli altri sensi non dipendono dai singoli organi ma dal cervello. Quindi il cervello di chi non ha i nostri problemi non lavora allo stesso modo del nostro.

— Però io faccio lo stesso lavoro…

Neanche questo è vero, anche se lui lo crede. Le soluzioni di Joe sono lineari; talvolta possono essere davvero efficaci, ma talvolta… Vorrei dire questo, ma taccio perché lui sembra così irritato e addolorato.

— Venite, su — dice dopo un poco. — Venite a fare uno spuntino con me, tu e Cam. Offro io.

— Non posso, ho un appuntamento — dice Cameron. Sospetto che abbia appuntamento con un suo amico giapponese col quale gioca a scacchi. Joe Lee si volge a guardarmi.

— Spiacente — mi ricordo di dire. — Io ho una riunione. — Sento il sudore scorrermi sulla schiena e spero che Joe Lee non mi domandi quale riunione. Se dovessi rispondergli con una bugia mi sentirei depresso per giorni e giorni.

Gene Crenshaw sedeva su una vasta poltrona a un capo del tavolo; Pete Aldrin, come gli altri, sedeva su una comune sedia lungo uno dei lati. Era tipico, pensò Aldrin: lui convocava riunioni perché così poteva far vedere quanto era importante nella sua poltrona. Era la terza riunione in quattro giorni, e Aldrin aveva sulla scrivania un sacco di lavoro arretrato che non riusciva a smaltire a causa delle riunioni. Gli altri si trovavano nella stessa situazione.

L’argomento del giorno era la negatività che regnava nell’ambiente di lavoro: per negatività s’intendeva qualunque disaccordo con Crenshaw. Tutti dovevano invece "afferrare la visione" (la visione di Crenshaw) e concentrarsi su di essa tralasciando qualunque altra cosa. Inutile fare appello alla democrazia: loro erano uomini d’affari, non membri di un partito. Crenshaw ripeté questa dichiarazione diverse volte, poi si riferì come esempio al gruppo di Aldrin, noto nell’ambiente come sezione A, come a un modello di scarso funzionamento.

Aldrin si sentì bruciare lo stomaco e salire in bocca un sapore amaro. La sezione A aveva una produttività impeccabile, e nella sua cartella personale c’erano parecchi encomi che lo dimostravano. Come poteva Crenshaw pensare che non funzionasse?

Prima che lui potesse obiettare, Madge Demont parlò. — Vedi, Gene, in questo dipartimento abbiamo sempre fatto un lavoro di gruppo. Adesso arrivi tu e ignori completamente la tecnica di lavoro comunitario che abbiamo adottato e che va bene per noi…