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Ci fermammo alle stazioni di posta il tempo sufficiente a sostituire i cavalli e a prendere un po’ di cibo e un sorso di vino.

All’alba del secondo giorno, l’auriga era esausto. Riusciva a malapena a calare dal carro il corpo irrigidito e dolorante, quando ci fermammo a metà strada. Ce lo lasciai. Lui protestò. Mi pregò di farlo continuare, dicendo che il principe lo avrebbe fatto frustare a morte se mi avesse abbandonato. Ma non aveva senso farlo proseguire.

Presi le redini nelle mie mani. L’avevo osservato abbastanza per sapere come occuparmi dei cavalli. La fatica urlava nel mio corpo, ma io sapevo come interpretare i suoi segnali e pompai più ossigeno, ricorsi all’iperventilazione, sempre guidando furiosamente gli animali freschi nel mattino che s’illuminava.

Avevo il fiume sulla sinistra, e superai molte imbarcazioni che si lasciavano trasportare dalla corrente del Nilo. Non abbastanza in fretta per me. Feci schioccare la frusta e i cavalli si sforzarono ulteriormente nelle loro armature.

Ad un curva della strada, mi voltai e diedi uno sguardo dietro di me. Un altro ciuffo di polvere si alzava alle mie spalle, lontano, all’orizzonte. Qualcuno mi stava seguendo alla mia stessa folle velocità. Truppe di rinforzo inviatemi dal re? O Menelao deciso a riprendersi sua moglie? In entrambi i casi, sarebbe stato un aiuto. Poi mi colpì un altro pensiero: potevano essere seguaci di Nekoptah, decisi ad aiutare lui?

Mentre il sole tramontava, passai a velocità folle attraverso un villaggio di piccole case spaventando adulti e bambini, e costeggiai circa un chilometro di giardini circondati da file di alberi e di laghetti graziosamente disposti. Il tempio di Osiride era là in mezzo, in cima a una lunga rampa che portava al fiume. Al molo era ormeggiata una sola barca.

Una mezza dozzina di soldati in armatura di bronzo montavano la guardia davanti all’entrata principale del tempio, quando feci fermare i cavalli coperti di schiuma e saltai giù dal carro.

— Chi sei e cosa stai facendo qui? — domandò il loro capo.

Ero disposto anche a combattere, se fosse stato necessario, ma avrei preferito evitarlo.

— In ginocchio, mortali! — dissi con voce più profonda possibile. — Io sono Osiride, e questo è il mio tempio.

Loro mi guardarono a bocca aperta, poi scoppiarono a ridere. Mi resi conto di essere letteralmente coperto della polvere della strada, e che difficilmente potevo sembrare la gloriosa e radiosa figura di un dio.

— Tu sei uno degli stranieri che il mio signore Nekoptah ci ha detto che avrebbero tentato di entrare nel tempio — disse il capo delle guardie. Sguainò la spada e gli altri si mossero per circondarmi. — Solo per la tua bestemmia, meriti la morte.

Trassi un profondo respiro. Erano sei, piccoli, muscolosi Egiziani con la pelle di un marrone profondo e gli occhi ancora più scuri, il petto protetto dalla corazza, elmi conici di bronzo sulla testa e spade in mano.

— Osiride muore ogni anno — dissi — e ogni volta il sole tramonta. Sono abituato alla morte. Ma non verrò ucciso da mani mortali.

Prima che potesse reagire, gli strappai la spada e la lanciai verso il fiume. La lama di bronzo catturò gli ultimi raggi del sole. I soldati la seguirono con gli occhi mentre descriveva la sua curva, in alto, sopra di loro. Gettai a terra il loro capo e affrontai l’uomo successivo. Cadde con un colpo alla testa. Quando il loro capo riuscì a sollevarsi sulle mani e le ginocchia, io avevo già sopraffatto tutto il suo manipolo.

Puntai un dito sul comandante, ricordando i toni imperiosi che il Radioso aveva usato spesso con me. — Resta in ginocchio, mortale, quando guardi un dio! E sii felice che vi abbia risparmiato la vita.

Tutti e sei affondarono la testa nella polvere, tremando visibilmente.

— Perdonaci, o potente Osiride…

— Resta fedelmente di guardia e sarai perdonato — dichiarai. — Ricorda che sfidare l’ira degli dèi significa andare incontro a una morte dolorosa.

Percorsi il tempio a grandi passi, chiedendomi se un dio avesse mai corso. Non davanti ai suoi fedeli, pensai. Non male per un uomo mandato in quel tempo come strumento senza mente, un servo senza ricordi. Mi ero conquistato il rango di creatore di re e di simulatore della divinità.

Ora, ero nuovamente votato alla vendetta, questa volta non per me stesso ma in nome di un grasso sacerdote innocente e di un vecchio, fedele burocrate, entrambi assassinati solo per essersi trovati tra Nekoptah e il potere. Sfoderai la spada e cominciai la mia caccia personale al Sommo Sacerdote di Ptah.

Percorsi cortili illuminati dalla luna appena sorta e risonanti corridoi, fiancheggiati da colonne e statue degli dèi. Mi imbattei in una fila di piccole stanze, santuari di varie divinità. Nekoptah non era nel sacrario di Ptah, dove guardai per prima cosa. Poi vidi che quello di Osiride aveva una piccola porta sul retro. La raggiunsi e la spalancai.

Era lì tutti e tre, in piedi vicino all’altare di Osiride, illuminati dalle lampade sul muro: Nekoptah, Elena e Menelao.

Lo spodestato re di Sparta era in armatura di bronzo, e teneva nella destra una pesante lancia; Elena, in una sfavillante veste blu-argento, si teneva leggermente dietro di lui.

— Te l’avevo detto! — gridò Nekoptah. — Ti avevo detto che sarebbe venuto a cercarla!

Il viso del sacerdote era senza trucco, e la sua rassomiglianza con Hetepamon era straordinaria. Però, mentre l’espressione del fratello era sorridente e amabile, quella di Nekoptah era collerica e viziosa. Notai che non portava gioielli alle mani tranne che su tre dita, dove gli anelli erano troppo affondati nella carne per poter essere tolti.

— Sì — dissi, più a Menelao che a Nekoptah. — Cerco lei. Per restituirla a suo marito.

Gli occhi di Elena scintillarono, ma lei non disse niente.

— Me l’hai portata via — ringhiò Menelao.

— Ha dormito con lei — s’intromise Nekoptah. — Hanno fatto di te un cornuto.

Io dissi: — Sei stato tu ad allontanarla da te, Menelao, con le tue maniere brutali. Vuole essere tua moglie, adesso, ma solo se la tratterai con amore e rispetto.

— Hai qualcosa da pretendere da me? — disse lui brusco, stringendo più forte la lancia.

Io rinfoderai la spada. Gentilmente risposi: — Menelao, ci siamo già affrontati in combattimento…

— Gli dèi non ti favoriranno sempre, Orion.

Diedi uno sguardo alle intricate incisioni sulle pareti del tempio. Naturalmente, c’era Osiride, e anche Aset, la mia Anya, mi accorsi, e tutte le altre divinità del pantheon egiziano.

— Prendi atto della somiglianza, Menelao. — Indicai l’effigie di Osiride. — E anche tu, falso sacerdote di Ptah. Guarda chi ti trovi davvero davanti!

Guardarono tutti e tre. Vidi gli occhi di Menelao spalancarsi, la sua bocca aprirsi.

— Io sono Osiride — dissi, e in quel momento sentivo di avere assolutamente ragione. — Gli dèi mi favoriranno sempre, perché sono uno di loro.

Elena era a bocca aperta, ma Menelao aveva lo sguardo stralunato. Solo Nekoptah lesse chiaramente nelle mie parole.

— Non è vero! — gridò. — È un trucco! Non ci sono dèi e non ci saranno mai. È tutto una menzogna!

Io sorrisi al suo viso contorto e furibondo. Dunque nel più profondo del suo cuore Nekoptah non credeva in niente. Era un cinico della peggior specie.

— Elena — dissi — Menelao è tuo marito e, indipendentemente da quanto ci sia stato fra noi, è vicino a lui che devi restare, adesso.

Annuendo, lei rispose: — Capisco, Orion… o dovrei chiamarti Signore Osiride?

Lo disse con un leggero sorriso che mi indusse a domandarmi fino a che punto mi credesse. Non aveva importanza; capiva cosa stavo cercando di fare e l’accettava. Tutti e due sapevamo che non ci saremmo rivisti più.