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Ma era accaduto l'imprevisto.

«Quindici miliardi l'anno?» aveva chiesto sconvolto il primo ascoltatore al telefono. «Miliardi? Mi sta dicendo che la classe di mio figlio è sovraffollata perché la scuola non può permettersi di pagare più insegnanti, e la NASA spende quindici miliardi di dollari per fotografare un po' di pulviscolo spaziale?»

«Ehm… proprio così» aveva detto Sexton con circospezione.

«Assurdo! Il presidente ha il potere di intervenire al riguardo?»

«Certo!» aveva risposto il senatore, più rincuorato. «Il presidente può porre il veto alle richieste di finanziamento dell'agenzia se ritiene che riceva fondi eccessivi.»

«Allora lei avrà il mio voto, senatore Sexton. Quindici miliardi di dollari per la ricerca spaziale, e i nostri figli hanno carenza di insegnanti. È una vergogna! Buona fortuna. Spero che lei arrivi fino in fondo.»

Era stata mandata in onda la telefonata successiva. «Senatore, ho appena letto che la stazione spaziale internazionale della NASA ha un deficit di bilancio enorme e il presidente intende concedere un finanziamento straordinario per portare avanti il progetto. È vero?»

Sexton aveva preso la palla al balzo. «Verissimo!» Aveva spiegato che la stazione spaziale in orbita dal 1999 doveva in origine essere una società a capitale misto di dodici nazioni che avrebbero condiviso la spesa ma, a costruzione iniziata, i costi erano saliti vertiginosamente, e molti paesi si erano ritirati, inorriditi. Anziché annullare il progetto, il presidente aveva deciso di coprire tutte le spese. «Per questo programma, la spesa è salita dagli otto miliardi preventivati a cento miliardi di dollari! Sconvolgente!»

L'ascoltatore era parso furibondo. «Perché diavolo il presidente non stacca la spina?»

Sexton avrebbe voluto baciarlo in fronte. «Ottima domanda. Purtroppo, un terzo delle apparecchiature per la costruzione è già in orbita, e per mandarcele il presidente ha speso i proventi delle vostre tasse, quindi staccare la spina significherebbe ammettere di avere compiuto un errore da molti miliardi di dollari con i vostri soldi.»

Erano continuate a piovere telefonate. Per la prima volta, sembrava che gli americani si rendessero conto che la NASA era un'opzione, non un'icona nazionale.

Terminata la trasmissione, a parte pochi ostinati sostenitori della NASA che avevano chiamato appoggiando con toni vibranti la causa dell'eterna ricerca dell'uomo sulla strada della conoscenza, l'opinione generale era che la campagna di Sexton aveva trovato un nuovo Santo Graal, un argomento scottante, controverso e non ancora sfruttato, che toccava un nervo scoperto degli elettori.

Nelle settimane successive, Sexton aveva sbaragliato gli avversari in cinque importanti primarie. Aveva nominato Gabrielle Ashe sua assistente personale per la campagna, elogiandola per avere portato all'attenzione degli elettori il problema della NASA. Con un cenno, Sexton aveva innalzato una giovane afroamericana al rango di stella nascente della politica, e la polemica sul suo atteggiamento razzista e sessista era svanita nel giro di una notte.

In quel momento, seduto nella limousine, Sexton capì che Gabrielle si era dimostrata ancora una volta all'altezza della situazione. L'informazione sull'incontro segreto della settimana precedente tra il direttore della NASA e il presidente lasciava supporre che i problemi dell'agenzia stessero aumentando: forse era stata avanzata un'ulteriore richiesta di fondi per la stazione spaziale.

Mentre l'auto superava il Washington Monurnent, l'obelisco dedicato al primo presidente degli Stati Uniti, il senatore Sexton non poté fare a meno di sentirsi prescelto dal destino.

8

Il presidente Zachary Herney, che pure aveva conquistato la più alta carica politica del mondo, era di modesta statura e di esile costituzione. Portava lenti bifocali e aveva spalle strette, un viso lentigginoso e radi capelli neri. Tuttavia, nonostante l'aspetto poco imponente, suscitava in chi lo conosceva un'adorazione reverenziale. Si diceva che chiunque, dopo averlo incontrato, era pronto ad andare in capo al mondo per lui.

«Sono molto contento che sia riuscita a venire» disse a Rachel, stringendole la mano con sincera cordialità.

Rachel avvertì un nodo di emozione in gola. «È… un onore incontrarla, signor presidente.»

Lui le rivolse un sorriso rassicurante e Rachel sperimentò di persona la leggendaria affabilità di quell'uomo. Herney aveva un'espressione bonaria molto apprezzata dai vignettisti politici perché, da qualsiasi angolazione lo ritraessero, era impossibile non coglierne il naturale calore umano e il sorriso amabile. Dai suoi occhi trasparivano sempre sincerità e dignità.

«Se vuole venire con me» la invitò in tono allegro «ho pronta una tazza di caffè con su scritto il suo nome.»

«La ringrazio.»

Il presidente premette un tasto sull'interfono e chiese di servire il caffè nel suo ufficio. Mentre lo seguiva, Rachel non poté fare a meno di notare che Herney appariva molto soddisfatto e riposato per essere uno che i sondaggi davano in posizione di svantaggio. Vestiva casuaclass="underline" jeans, polo, scarpe sportive L.L. Bean. Lei cercò un argomento per sciogliere il ghiaccio. «Si dà… alle escursioni, presidente?»

«Niente affatto. I miei consiglieri hanno deciso che questo dovrà essere il mio nuovo look. Lei che ne dice?»

Rachel si augurò per amor suo che non parlasse sul serio. «Fa molto… ehm… uomo di tempra, signore.»

Herney rimase imperturbabile. «Ottimo. Forse potrà aiutarmi a sottrarre qualche voto femminile a suo padre.» Dopo una breve pausa, si lasciò andare a un grande sorriso. «Scherzavo, signora Sexton. Sappiamo entrambi che ci vogliono ben più di una polo e un paio di jeans per vincere queste elezioni.»

La franchezza e il buonumore del presidente stavano sciogliendo la soggezione che il posto le incuteva. Quell'uomo compensava con la diplomazia ciò che gli difettava in prestanza fisica. E la diplomazia era una dote umana che Zach Herney sicuramente possedeva.

Rachel seguì il presidente nella parte posteriore dell'Air Force One. Più ci s'inoltrava, meno si aveva la sensazione di trovarsi a bordo di un aereo: corridoi curvi, tappezzeria alle pareti, perfino una palestra completa di Isostep e vogatore. Stranamente, il Boeing appariva quasi completamente deserto.

«Viaggia solo, presidente?»

Lui scosse la testa. «Sono appena atterrato, in realtà.»

Rachel ne fu sorpresa. "Atterrato da dove?" Nei rapporti dell'intelligence non aveva letto di viaggi presidenziali. Evidentemente usava Wallops Island per spostarsi senza dare nell'occhio.

«Il mio staff è sbarcato poco prima che lei arrivasse» affermò. «Lo incontrerò alla Casa Bianca, tra poco. Ma ho preferito farla venire qui piuttosto che nel mio ufficio.»

«Per intimidirmi?»

«Al contrario; in segno di rispetto, signora Sexton. La Casa Bianca è costantemente sotto i riflettori, e la notizia di un incontro tra noi l'avrebbe messa in una posizione imbarazzante con suo padre.»

«Apprezzo molto il suo riguardo, signore.»

«A quanto pare, lei riesce a destreggiarsi con garbo in una situazione assai delicata e io non voglio nuocerle in alcun modo.»

Rachel rivide una breve immagine dell'incontro con il padre a colazione e pensò che difficilmente il suo comportamento poteva essere definito garbato. Ma Zach Herney stava facendo di tutto per essere gentile, anche se non ne aveva certo il dovere.

«Posso chiamarla Rachel?» le chiese.

«Certo.» "E io posso chiamarla Zach?"

«Il mio ufficio» annunciò il presidente, aprendo una porta di acero intagliato.

L'ufficio a bordo dell'Air Force One era certamente più intimo dell'omologo alla Casa Bianca, malgrado l'austerità dell'arredamento. Dietro la scrivania, ingombra di carte, un grande dipinto a olio raffigurava una classica goletta a tre alberi, completamente invelata, che avanzava faticosamente in una furibonda tempesta. Una perfetta metafora della presidenza di Zach Herney in quel momento.