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«In realtà non posso descrivertela. Ma se proprio dovessi definirla in qualche modo direi che quel coso enorme, brillante, rosso-arancione, aveva una faccia simile alla maschera tragica greca.»

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Isaac Newton svoltò con la macchina in uno spazio libero nel parcheggio del New Cavendish Laboratory, nella Madingley Road a Cambridge. Per caso, la macchina risultò puntata sul laboratorio per cui lui poté abbracciare con lo sguardo le palazzine attraverso il parabrezza mentre spegneva il motore. Le ricordava dai tempi in cui era ancora studente. Allora, quelle costruzioni gli erano sembrate enormi, ma dopo un decennio trascorso al CERN gli sembravano piuttosto piccole.

Un ritorno di timidezza giovanile lo aveva indotto ad arrivare al laboratorio molto per tempo, in maniera da poter dare un’occhiata in giro prima che la gente venisse al lavoro. Era strano come ricordasse ogni particolare, persino gli armadietti usati dal personale delle pulizie. Non sarebbe stato in grado di descrivere l’ambiente nei dettagli, tuttavia tutto gli appariva familiare, come se i tredici anni al CERN non fossero trascorsi.

Inevitabilmente, il pellegrinaggio lo portò alla raccolta dei vecchi cimeli, usati dai celebri studiosi di fisica nei loro esperimenti all’inizio del secolo, e naturalmente alla scrivania di James Clerk Maxwell, il primo cattedratico di Cavendish, l’uomo che aveva reso possibile l’industria delle telecomunicazioni. Si domandò se mai nel futuro sarebbe accaduto ancora qualcosa di simile. Sarebbero bastate ancora una volta le idee di un unico uomo seduto alla sua scrivania, oppure le ingegnose ma semplici apparecchiature, come quelle esposte nelle vetrine intorno a lui, per trasformare il mondo? O il futuro sarebbe stato interamente determinato da progetti giganteschi e organizzazioni altrettanto gigantesche come il CERN e come le multinazionali ora predominanti nel campo dell’elettronica? Era difficile pensare che le lancette dell’orologio potessero essere spostate indietro. L’ironia della sorte voleva che le organizzazioni enormi, le quali avevano ormai sopraffatto ogni università del mondo, fossero state in realtà create dalle stesse università. Man mano che le necessità aumentavano era sembrato sensato da parte dei governi concentrare le risorse in centri nazionali amministrati però per conto delle università. Questo almeno era stato l’intendimento iniziale. Ma con il progressivo sviluppo del sistema nel corso degli anni, le organizzazioni centrali si erano arrogate fette di potere sempre più ampie, finendo per lasciare le università pressappoco nelle condizioni di un banco di balene finite in secca.

E non era questo il peggio. Le necessità avevano sopraffatto persino la capacità delle singole nazioni, per cui era sembrato ragionevole amalgamare le risorse di parecchi popoli, esattamente com’era stato fatto al CERN, con conseguenze prevedibilmente identiche. Gli organismi internazionali si erano trasformati vieppiù in entità autonome. In teoria, le nazioni coinvolte potevano esercitare un controllo di essi negando o riducendo i contributi finanziari. Effettivamente si udivano a tratti proteste in questo senso, ma senza che accadesse in realtà qualcosa. Nessun governo era disposto ad accettare la disapprovazione degli altri ritirandosi. Anzi, le organizzazioni internazionali erano diventate così potenti da spremere costantemente persino i centri nazionali. Le università erano state addirittura espulse come i noccioli di tante ciliege schiacciate tra il pollice e l’indice.

Isaac Newton si rendeva perfettamente conto — purtroppo con rammarico e in ritardo — che stava facendo la figura di un folle donchisciottesco per essersi messo in una posizione dalla quale era costretto a combattere una simile situazione. Era in effetti ciò che il suo ritorno a Cambridge implicava.

Queste furono le riflessioni di Isaac Newton mentre scendeva gli scalini a fianco dell’aula magna. Improvvisamente, un lontano richiamo interruppe il corso dei suoi pensieri. Il richiamo proveniva dal fondo di uno dei corridoi a raggiera. Isaac Newton riconobbe la sagoma che si stagliava nel corridoio prima di riuscire a distinguere il volto dell’uomo che correva verso di lui.

«Ma guarda chi si vede, il vecchio Scrooge!» (1) esclamò Isaac Newton mentre si stringevano la mano.

«Il giovane Isaac Newton! Sa che non è cambiato per niente? E ora è professore e ordinario! Chi lo avrebbe mai detto, quando arrivò qui! Quanto tempo sarà passato da allora?»

«Diciannove anni, penso.»

«Diciannove anni fanno una bella differenza, non le pare, professore?»

Scrooge era l’assistente che da tempi immemorabili sovrintendeva al magazzino del laboratorio. Godeva da sempre fama di essere estremamente avaro e puntiglioso nella consegna dei materiali — era del resto a questo che doveva il nomignolo — una reputazione che coinvolgeva tutto il personale amministrativo, ivi compreso lo stesso cattedratico. Scrooge era piaciuto a Isaac Newton sin da allora, diciannove anni prima, quando, timido studente, era venuto a Cambridge per sostenere l’esame di prammatica per ottenere la borsa di studio. Nell’esame di fisica sperimentale gli era stato consegnato un galvanometro guasto che Scrooge aveva sostituito senza protestare. Inoltre, Scrooge gli era sempre piaciuto per la maniera in cui usava l’aggettivo «giovane», il «giovane» Isaac Newton, non gli altri aggettivi sprezzanti che il ragazzo aveva dovuto sopportare nei suoi rapporti con l’ambiente. Scrooge era invecchiato. Gli edifici erano gli stessi, ma le rughe sulla faccia dell’assistente fecero capire a Isaac Newton che era passato un bel po’ di tempo.

Come se gli avesse letto nel pensiero, Scrooge disse: «Tra due anni vado in pensione. Ma non si preoccupi, professore. Baderò a lei finché resterò qui».

«Quando è venuto qui?»

«Prima dell’ultima guerra.»

«Ai tempi di Rutherford?»

«Nell’ultimo anno, prima che morisse. Avevo appena lasciato la scuola. E’ stato il mio primo e unico lavoro.»

«Doveva essere un lavoro entusiasmante, a quei tempi.»

«Lo era. Da allora non è stato mai più lo stesso», commentò Scrooge, affrettandosi a soggiungere: «Ma lo sarà di nuovo, ora che lei, professore, è ritornato».

«Faremo del nostro meglio.»

«Beh, professore, noi certo non facciamo del nostro meglio se restiamo qui, a chiacchierare, per tutto il giorno. Io devo fare un po’ di inventario e lei avrà bisogno di vedere il Drago. La troverà nel suo ufficio. Arriva di buon’ora, come me.»

«Drago» era da sempre il nomignolo della segretaria del professore ordinario della cattedra. Isaac Newton aveva già parlato per telefono con il Drago. Era una signora dal fortissimo accento scozzese e lui se l’immaginava piuttosto in carne e sui cinquantacinque anni, una supposizione che si rivelò quasi perfettamente aderente alla realtà. Era appena entrato nel proprio ufficio che il Drago fece la sua comparsa, massiccio, possente, un bloc-notes in mano.

«Ah, signora Gunter, sembra che siamo arrivati entrambi prima dell’orario.»

«Io vengo sempre prima dell’orario, professore, e ne sono orgogliosa», osservò il Drago mentre si stringevano la mano. A questo punto, Isaac Newton si sovvenne che conosceva il nome del Drago, eppure si trattava di una donna che non aveva mai visto. Invece non aveva la minima idea di come Scrooge si chiamasse in realtà. Il fenomeno doveva avere la sua importanza, anche se Isaac Newton non sapeva in che cosa essa potesse consistere. Non che il Drago gli lasciasse del resto molto tempo per riflettere. Agitando vistosamente il grosso bloc-notes, la segretaria disse: «Potremmo occuparci degli appuntamenti e dei comitati, professore, in maniera che lei possa farsi un’idea dello stato delle cose». Il Drago era evidentemente una di quelle segretarie che pretendono di regolare l’attività del loro capo.

«Non ho preso alcun appuntamento, signora Gunter, e non faccio parte di alcun comitato», rispose Isaac Newton, pensando che tanto valesse rimettere le cose subito a posto e ristabilire la scala gerarchica.