Il mondo aumentò la propria velocità e poi divenne di nuovo reale. Axxter si girò per guardare alle sue spalle. Un capo del cavo si stava riavvicinando al muro; la Norton vi era ancora fissata, mentre le corde che tenevano bloccate le sue ruote avevano raggiunto la massima tensione. La parte finale di quella catena era lo stesso Axxter, fissato con altre cinture al sedile della Norton.
Colpì il muro con la spalla e il dolore gli annebbiò la vista. Sentì che le sue mani, malgrado il dolore, stavano graffiando la superficie metallica, in cerca di un appiglio. Poi il muro si allontanò di nuovo da lui, mentre il cavo reciso si allungava nel vuoto.
Riuscì ad aprire gli occhi e vide la Norton staccarsi dal cavo con tutte le corde svolazzanti. Anche il sidecar, dopo aver colpito il muro, andò in tanti pezzi, come una costellazione che si muoveva nel cielo.
Le corde non avevano resistito: le sentì schioccare come colpi di pistola distanti. Ogni cosa era svanita, perfino l’edificio stesso. E Axxter, sospinto dal vento, sembrava una X svolazzante e inarcata contro il nulla. Vide le nuvole sotto di sé, immobili per un attimo e poi, improvvisamente, muoversi velocemente verso di lui.
Le colpì e si sentì accecato: si trovava in un mondo bianco, senza connotazioni. Gli sembrava ancora di cadere, mentre quella nebbia pesante gli copriva il viso.
Improvvisamente riuscì a vedere di nuovo, in un crepuscolo grigio e soffice. Girò la testa e vide la parte scura delle nubi, che ora si trovavano sopra di lui.
Poi udì un canto.
E li vide, in cerchio intorno a sé. I loro visi sorridevano, stupiti al suo passaggio in mezzo a loro.
Vide le schiere di angeli cantare nella luce soffusa: il cielo ne era pieno. I suoi pensieri erano confusi, la sua testa piena di nulla e la caduta gli stava prosciugando le ultime energie. Eppure continuava a sentirli cantare.
9
Cercò di svegliarsi, poi si concentrò ancora più profondamente per non farlo, per tornare in quel buio fitto e confuso. Ma era troppo tardi: aveva già avvertito il dolore, le ammaccature che sembravano lame di rasoio contro la sua spina dorsale.
— Gesù… Cristo… — Sentì il suono delle proprie parole, un sussurro distante, al di là del rombo che aveva nelle orecchie. Qualcosa dentro di lui, che era stata parte di lui, ma che in quel momento lui non riconosceva, voleva vomitare; sentiva la nausea salirgli dalla radice della lingua. E avrebbe vomitato volentieri se solo avesse saputo in che posizione si trovava. Se fosse stato capovolto, probabilmente non sarebbe stata una buona idea; ricordava alcuni avvertimenti che gli avevano dato molto tempo prima su tremende lavande gastriche… si poteva morire in quel modo.
Aveva già capito di essere ancora vivo. La sincronia dei suoi dolori con il pulsare del sangue e i sussulti all’interno della sua testa… ecco cosa glielo aveva fatto capire: se fosse stato morto non si sarebbe sentito così male.
Aprì gli occhi. La palpebra destra non si sollevò subito, ma, infine, si aprì come una lampo difettosa. Il cielo era rosa intorno ai bordi delle nuvole lontane. Viste attraverso il groviglio dei suoi capelli, avevano macchie nere, di sudore o sangue. Scosse la testa, cauto: sentiva delle punte di spillo alla base della nuca. Le linee scure fluttuavano sullo sfondo delle nubi. Sono rivolto verso l’alto. Quello era riuscito a capirlo.
La sua giacca e la sua camicia erano strappate; guardandosi con il mento appoggiato al petto, notò dei lividi, le costole segnate di blu e un’abrasione rossa su un fianco. Vedeva il proprio petto sollevarsi a ogni respiro che corrispondeva a una ritmica staffilata al cuore. Sì, era decisamente vivo; quella conferma quasi gli dispiacque. I sussulti gli correvano lungo la schiena. Era davvero stupito, in mezzo a quella nebbia protettrice.
Ricordava di aver colpito il muro mentre si trovava alla fine del cavo. Poi era caduto, il grande passo. Altrimenti quei folli avrebbero portato a termine il loro lavoro. Sollevò un braccio dal gomito scricchiolante e si passò una mano sulla faccia, scostandosi i capelli rossi dal viso per vedere più luce. Anche il palmo della mano era rosso, rosso con strisce nere di grasso e sporco. Il sudore appiccicoso gli unse il viso.
Grasso… quello lo fece pensare. A un altro dei poveri viaggiatori, un suo compagno di viaggio, che aveva colpito il muro con un rumore di metallo contro metallo. Quello che aveva sulle mani era probabilmente il grasso della Norton — si era forse aggrappato a lei mentre scivolava nel vuoto, in parte per attaccarsi a qualcosa di familiare e in parte per salvare la sua moto? — non riusciva a ricordarlo. La rivide solo rotolare via, un arco piatto verso il margine dell’atmosfera, con le ruote trasformate in ovali e le corde che vibravano inutilmente intorno ai mozzi mentre il motore perdeva tutti i pezzi. Nel petto già sanguinante, provò tristezza anche per quell’ultima vista. Pezzo d’idiota… Con le lacrime agli occhi, si rese conto di non aver provato altro se non dolore e tristezza da quanto aveva scoperto di essere ancora vivo.
— È ora di andare — Axxter aprì di nuovo gli occhi. Probabilmente c’era un sacco di roba di cui occuparsi, se doveva continuare a vivere. Sapeva bene di non potersi limitare a stare aggrappato al muro.
Per la prima volta si chiese esattamente cosa lo tenesse attaccato alla parete. La sua solita nausea — un altro sintomo di vita — gli serrò la gola quando guardò verso il basso e vide la barriera di nuvole stagliarsi contro la curva dell’edificio, molto più sotto di lui. Le corde dei suoi stivali gli avevano saldamente fissato i fianchi e le caviglie al metallo, mentre i piedi non toccavano la superficie. Le corde gli bloccavano anche la vita e gli appiattivano il sedere contro il Cilindro; il freddo dell’acciaio gli gelava il retro delle cosce e il coccige.
Ma c’era qualcos’altro, molto meno vivo di quanto lo fossero le sue corde. E più spesso: una corda di plastica e tela intrecciate con fili colorati i cui capi d’ottone spuntavano fuori da quella fune rozza. Si accorgeva solo ora che gli attraversava il petto: in alcuni punti gli dava fastidio sui lividi e c’era una specie di nodo sulla spalla da cui partivano fili colorati che sembravano volerglisi infilare nelle orecchie. Qualcuno l’aveva legato là sopra e aveva intrecciato quella grezza fune come una specie di culla che reggesse il suo peso; qualcuno che non aveva avuto fiducia nelle sue sottili corde, che non sapeva quanto fossero forti… in realtà, se queste non avessero retto, egli dubitava che quello strano intreccio l’avrebbe tenuto fissato al muro, impedendogli di cadere a capofitto verso le nuvole. Gli sembrava che solo chinando il capo per guardarla, quella corda si rompesse.
Quella fune di fortuna proseguiva dalla sua spalla fino a una specie di cappio al polso che gli teneva la mano destra sollevata sopra la testa. Axxter guardò in alto per rendersi conto se poteva liberarla. Fu allora che la vide, mentre lo stava osservando.
— Ciao. Ciao. — Lahft gli sorrise, con gli occhi un po’ addormentati, come se la sua precipitosa caduta l’avesse svegliata da un pisolino. — Ciao, Ny, ciao. — Il sorriso dell’angelo divenne ancora più radioso.
Axxter girò il capo per vederla meglio. Era seduta con le gambe a penzoloni in una specie di nicchia triangolare scavata nella superficie metallica. — Ciao, ehi lassù. — Egli annuì e cercò di imitare debolmente il suo sorriso. Ora sapeva chi gli aveva intrecciato intorno quella corda. Per impedirgli di cadere di nuovo.
Riuscì a liberarsi la mano e la mosse per riattivare la circolazione sanguigna. Ora cominciava a ricordare qualcosa di più. La caduta, la moto e il sidecar che svanivano nel vuoto, i guerrieri della Folla Devastante che volavano verso le nuvole sottostanti…