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— Niente affatto — mentì Charlie. Si calcò il cappello in testa e uscì.

Accidenti, era troppo presto per mangiare! Ma aveva un’ora di tempo, e prima poteva farsi una passeggiata di una trentina di minuti per stuzzicare l’appetito.

Il museo era poco lontano, e quello gli sembrò proprio il posto adatto per passare mezz’oretta. Ci andò e passeggiò su e giù per il corridoio centrale, fermandosi solo a dare una rapida occhiata a una statua di Afrodite che gli ricordava Jane Pemberton e che gli fece pensare, con intensità anche maggiore del solito, che mancavano solo sei giorni alle nozze.

Poi entrò nella sala che ospitava la collezione numismatica. Da ragazzo collezionava monete, e anche se aveva poi sospeso quell’attività, gli piaceva sempre osservare la bella collezione del museo.

Si fermò davanti a una bacheca di monete romane in bronzo.

Ma non pensava a quelle. Era ancora assorto nel pensiero di Afrodite, o Jane, cosa perfettamente comprensibile date le circostanze. Comunque, non stava certo pensando a vermi volanti o a improvvise ondate di calore.

Poi gli capitò di lanciare un’occhiata a una bacheca vicina. E vide che conteneva un’anitra.

Era un’anitra del tutto normale. Aveva il petto screziato, segni grigio-bruno sulle ali e la testa scura, con una striscia ancora più scura che partiva dagli occhi e correva giù, lungo il collo corto. Sembrava un’anitra selvatica, più che domestica.

E aveva l’aria triste.

Per un attimo, quella presenza non parve a Charles eccessivamente strana: anche se aveva sotto il naso un’anitra selvatica chiusa in una bacheca di vetro con la scritta “Monete cinesi”, il suo pensiero era rivolto ad Afrodite.

L’anitra schiamazzò, e percorse con andatura dondolante la bacheca per tutta la sua lunghezza, andando a sbattere contro il vetro dell’estremità opposta. Batté le ali, cercò di alzarsi a volo, ma urtò contro il coperchio di vetro, e schiamazzò ancora, più forte.

Soltanto allora Charlie si domandò che cosa facesse un’anitra viva nel bel mezzo di una collezione numismatica. Evidentemente, a giudicare dalle sue reazioni, l’uccello la pensava allo stesso modo.

All’improvviso Charlie si ricordò del verme-angelo e delle scottature solari senza sole.

— Ssss! Silenzio — ammonì qualcuno dalla soglia della sala.

Charlie si voltò. Doveva avere la faccia stravolta, perché l’accigliato sorvegliante prese subito un’aria più umana e domandò: — Qualcosa che non va, signore?

Per un attimo lui si limitò a fissarlo stupidamente. Poi pensò che quando aveva visto il lombrico salire in cielo era stato meno fortunato: ora erano in due, e non si può avere in due la stessa allucinazione! Se poi era davvero un’allucinazione.

Aprì le labbra per dire: — Guardate… — ma non ci fu bisogno di pronunciare parola. L’anitra l’aveva preceduto, schiamazzando disperatamente e cercando di volar via attraverso il vetro della bacheca.

Il guardiano guardò in direzione delle monete cinesi e si lasciò sfuggire un — Ohhh! — strozzato.

L’anitra era ancora là.

L’uomo guardò di nuovo Charlie, allibito, e disse: — Siete… — Ma lasciò la domanda a metà e si avvicinò alla vetrina per guardare meglio. L’anitra stava ancora lottando per uscire, ma con meno vigore. Sembrava che le mancasse il fiato.

— Ohhh! — ripeté il sorvegliante. Poi, rivolto a Charlie, continuò: — Signore, come avete… La bacheca è ermeticamente chiusa. A tenuta d’aria. Guardate quell’uccello. Sta per…

Già fatto: l’anitra giaceva immobile, morta o svenuta.

Il guardiano afferrò Charlie saldamente per un braccio. — Adesso verrete con me dal direttore! — Poi, con minore decisione, aggiunse: — Ma come avete fatto… a farla entrare là dentro? E non cercate di farmi credere che non siete stato voi! Sono passato di qui cinque minuti fa, e da allora nessun altro è entrato.

Charlie aprì la bocca e la richiuse. All’improvviso si vide sottoposto a lunghi interrogatori, prima nella direzione del museo, poi in questura. E se quelli della questura cominciavano a fargli domande, avrebbero scoperto la faccenda del verme e del suo ricovero in ospedale per… Avrebbero chiamato uno psichiatra e…

Con il coraggio della disperazione, Charlie trovò la forza di sorridere. Cercò di rendere il più sinistro possibile quel sorriso, e ne risultò un sorriso decisamente fuori del normale. — Vi piacerebbe trovarvi là dentro? — domandò al guardiano. E col braccio libero indicò il sarcofago di pietra di re Meneptah, che si intravedeva attraverso la soglia nel salone principale. — Posso accontentarvi facilmente, come ho messo quell’anitra…

L’uomo ansava penosamente. I suoi occhi si velarono, e lasciò andare il braccio di Charlie. — Signore — disse — voi davvero…?

— Volete che vi mostri come ho fatto?

— Uhh… Oh! — gorgogliò il guardiano. E schizzò via come un proiettile.

Charlie si impose un’andatura sostenuta, ma non si mise a correre, e si allontanò nella direzione opposta, dirigendosi verso l’ingresso secondario che dava in Beeker Street.

Beeker Street era ancora una via normale: congestionata per il traffico di mezzogiorno, ma senza elefanti rosa che si arrampicassero sugli alberi. La solita, frenetica confusione di una via cittadina. Il rumore delle auto lo calmò, in certo senso. Ad un tratto, un improvviso colpo di clacson lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto, temendo di vedere chissà che cosa.

Ma era soltanto un autocarro, e lui si affrettò a levarsi di mezzo per non farsi travolgere.

5

Finalmente si decise a mandar giù qualcosa. Stava diventando nevrastenico. La mano gli tremava tanto che riuscì a malapena a sollevare la tazzina del caffè senza rovesciarselo tutto addosso.

Un pensiero orribile gli si era affacciato alla mente: se in lui c’era qualcosa di storto, poteva chiedere a Jane Pemberton di sposarlo? Si può, in coscienza, appioppare alla ragazza che si ama un marito che quando apre un frigorifero per prendere una bottiglia di latte, può trovarci invece… Dio sa cosa?

E lui amava Jane pazzamente.

Rimase lì seduto, col panino imbottito ancora intatto nel piatto che aveva davanti, in una penosa alternativa di speranza e disperazione, cercando di dare un senso ai tre avvenimenti che gli erano capitati durante la settimana.

Allucinazioni?

Ma anche il guardiano aveva visto l’anitra!

Che conforto era stato, allora, dopo aver visto il lombrico-angelo, dire a se stesso che si trattava di un’allucinazione! Soltanto di quello.

Ma, un momento. Forse…

Il guardiano del museo non poteva anche lui far parte dell’allucinazione? Ammesso che lui, Charlie, avesse visto un’anitra che non c’era, non era possibile che avesse visto anche un guardiano di museo inesistente, che dichiarava di aver visto l’anitra? Perché no? Un’anitra e un guardiano che la vede… entrambi immaginari.

Charlie si sentì così sollevato che diede un morso al panino.

Ma la scottatura? Anche quella, un’allucinazione? Non poteva una disfunzione naturale dell’organismo causare all’improvviso un’alterazione della pelle che avesse l’aria di una leggera scottatura? Se esisteva un disturbo del genere, certo il dottor Palmer non ne era a conoscenza.

All’improvviso Charlie vide l’orologio appeso al muro. Era l’una. Si rese conto di essere in ritardo di oltre mezz’ora, e mandò giù il boccone tanto in fretta che per poco non si strozzò. Era rimasto lì seduto quasi un’ora.

Si alzò e si precipitò in ufficio.

Ma tutto era a posto. Il vecchio Hapworth non c’era. E il testo del volantino arrivava in quel momento, in ritardo.