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Il signor Pemberton gli dette la mano pacatamente. — Charles, non so dirti quanto mi rincresce…

Charlie annuì. — Grazie. Credo… credo che comprendiate benissimo perché non voglio vedere Jane. Mi rendo conto che… che naturalmente non possiamo…

Pemberton annuì. — Jane… capisce benissimo, Charles. Vorrebbe vederti, ma si rende conto che sarebbe peggio per tutti e due, in questo momento. E, Charles, se possiamo fare qualcosa…

C’era forse qualcosa che qualcuno potesse fare?

Strappare le ali a un lombrico?

Estrarre un’anitra da una bacheca?

Trovare una palla da golf scomparsa?

Quando i Pemberton se ne furono andati, entrò Pete. Il Pete più tranquillo e premuroso che Charlie avesse mai conosciuto.

— Charlie, te la senti di discutere la faccenda adesso? — domandò.

Lui sospirò. — Se può servire a qualcosa, sì. Fisicamente sono a posto. Ma…

— Senti, non devi assolutamente perderti di coraggio. Ci dev’essere una spiegazione. Mi sono sbagliato. C’è un nesso, un legame che unisce tutte le cose bizzarre che ti sono capitate. Deve esserci.

— Certo — disse Charlie, rassegnato. — Quale?

— È quello che dobbiamo scoprire. Prima di tutto dobbiamo fregare gli psichiatri prima che tornino all’attacco. Consideriamo la cosa dal loro punto di vista, per sapere che cosa dire. Primo…

— Che cosa sanno?

— Be’, farneticavi, prima di riprendere conoscenza. Il verme, l’anitra e la palla da golf. Ma questo può passare per l’effetto dell’etere. Parlavi nel sonno. Sognavi. Devi negare di saperne qualcosa. Non sai nulla né del verme, né dell’anitra, né della palla. Certo, la faccenda dell’anitra è finita sui giornali, ma non ha avuto molta pubblicità e non è stato fatto il tuo nome. Non possono metterla in relazione con te. Se lo facessero, nega. E adesso restano le due volte che sei svenuto e che ti hanno portato qui privo di conoscenza. Il calore e l’etere, per intenderci.

— Che ne pensano, loro? — domandò Charles.

— Sono perplessi. Il colpo di calore, be’, non sanno che cosa dire. Credo che abbiano intenzione di lasciar perdere. Questa volta invece… Sono convinti che devi esserti propinato l’etere da solo, in qualche modo.

— Ma perché? Perché uno dovrebbe darsi l’etere da sé?

— Nessuno con la testa a posto lo farebbe. Qui sta il punto: dubitano della tua sanità mentale, e per questo credono che tu l’abbia fatto. Se riesci a convincerli che non ti manca una rotella… Senti, su con la vita! Parlano di stato di ipocondria acuta, qualcosa che sconfina nella psicosi maniaco-depressiva. Capito? Mostrati allegro.

— Allegro? Quando avrei dovuto sposarmi alle due di oggi? A proposito, che ore sono?

Pete dette un’occhiata al suo orologio. — Lascia perdere… Certo, se ti chiedono perché ti senti sconvolto, digli…

— Al diavolo, Pete! Vorrei tanto essere pazzo! Almeno la pazzia avrebbe un senso. Comunque, se questa storia continua, credo che diventerò pazzo davvero.

— Non parlare in questo modo! Devi lottare.

— Lottare — disse sconsolato Charlie. — Contro che cosa?

La porta si aprì e l’infermiera mise dentro la testa.

— Il tempo della visita è finito, signor Johnson. Dovete andare.

14

Inattività e frustrazione di ripercorrere continuamente itinerari mentali che non portano a niente. Doveva fare qualcosa, per non impazzire.

Vestirsi? Chiese i suoi abiti e glieli portarono. Però gli diedero le pantofole e non le scarpe. Comunque, per vestirsi gli ci volle un po’ di tempo.

E starsene seduto in poltrona non era starsene a letto. E passeggiare su e giù per la stanza, non era restare seduto in poltrona.

— Che ora è?

— Le sette, signor Wills.

Le sette. Avrebbe dovuto essere sposato già da cinque ore.

Sposato a Jane: alla bella, splendida, dolce, affettuosa, comprensiva, morbida, amabile Jane Pemberton, che cinque ore fa, avrebbe dovuto diventare Jane Wills.

Mai più.

A meno che…

Il problema.

Risolverlo.

O impazzire.

Perché un verme doveva portare un’aureola?

— È arrivato il dottor Palmer, signore. Devo…?

— Salve, Charles. Sono venuto appena ho saputo che avevate ripreso conoscenza. Avevo un malato grave che non potevo lasciare. Come state, ora?

Stava malissimo.

Aveva voglia di urlare e di strappare la tappezzeria dalle pareti; solo che le pareti erano dipinte di bianco, non tappezzate. Di urlare, urlare…

— Mi sento magnificamente, dottore — disse.

— Vi è capitato niente altro di strano, da quando siete qui?

— Niente. Ma, dottore, come spiegate…

Il dottor Palmer spiegò. I dottori spiegano sempre. L’aria crepitò di parole come psiconeurosi, autoipnosi e traumi.

Finalmente, Charlie si ritrovò solo. Era riuscito a congedare il medico senza mettersi a urlare e farlo a pezzi.

— Che ora è?

— Le otto.

Sposato da sei ore.

Perché un’anitra?

Risolvere.

O impazzire.

Cosa sarebbe accaduto la prossima volta? “Certo, questo peso me lo porterò dietro per tutta la vita, e dovrò starmene in manicomio per sempre!”

Le otto.

Sposato da sei ore.

Perché una ghirlanda del tipo “lei”? Perché l’etere? Perché il calore?

Che cosa avevano in comune?

E che cosa gli sarebbe successo la prossima volta? Quando sarebbe stata, esattamente, la prossima volta? Forse quello poteva indovinarlo. Quante cose gli erano capitate fino a quel momento? Cinque… contando anche la sparizione della palla da golf. E a che distanza, l’una dall’altra? Vediamo: il lombrico, domenica mattina mentre andava a pescare; il colpo di calore, martedì andando in ufficio; l’anitra, giovedì a mezzogiorno; la ghirlanda, sabato; l’etere, lunedì…

Ogni due giorni!

Periodicità?

Passeggiò ancora su e giù per la stanza. Poi si ficcò una mano in tasca, tirò fuori un blocchetto e una matita, e si rimise a sedere.

Si trattava di una periodicità… esatta?

Scrisse “lombrico” (angleworm), e si mise a riflettere. L’appuntamento con Pete, ricordò, era stato alle cinque e quindici; e lui era ‘sceso proprio a quell’ora, e aveva scavato nell’aiuola per raccoglier vermi… Sì, le cinque e un quarto del mattino. Lo scrisse.

“Calore”. Dunque… Era a un isolato dall’ufficio, e ci sarebbe dovuto arrivare per le otto e mezzo; passando avanti a un orologio, aveva visto che mancavano ancora cinque minuti. Poi aveva scorto il carrettiere e… “Otto e venticinque”, scrisse. E calcolò.

Due giorni, tre ore, dieci minuti.

E poi, cosa c’era? L’anitra nel museo. Anche lì poteva calcolare l’ora con esattezza. Il vecchio Hapworth gli aveva detto di pranzare in anticipo e lui era uscito alle… vediamo… alle undici e venticinque. E gli ci erano voluti una decina di minuti per arrivare al museo, percorrerne il corridoio principale ed entrare nella sala della collezione numismatica. Le undici e trentacinque, quindi.

Tornò, a ritroso, fino alla data precedente.

Due giorni, tre ore, dieci minuti.

E la ghirlanda? Avevano lasciato la sede del club all’una e trenta circa. Un’ora e un quarto per le prime tredici buche e… Be’, era stato tra le due e trenta e le tre. Le due e quarantacinque, doveva essere l’ora esatta. Bisognava provare anche con quella.

Due giorni, tre ore, dieci minuti.

Periodicità.

Il quinto avvenimento doveva essersi verificato alle cinque e cinquantacinque di lunedì pomeriggio. Se…

Sì, mancavano esattamente cinque minuti alle sei, quando aveva attraversato la soglia dell’oreficeria ed era caduto addormentato.