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Alzò la voce fino a urlare: — Se puoi, Barnoch, tagliati immediatamente la gola! Se non lo farai, desidererai di essere morto di fame da tanto tempo!

Vi fu un istante di silenzio. Io pativo terribilmente al pensiero di dover praticare la mia arte su un seguace di Vodalus. L’alcalde sollevò il braccio destro sopra la testa, quindi lo riabbassò con un gesto perentorio. — Forza, ragazzi, metteteci tutto il vostro impegno!

I quattro che sorreggevano l’ariete contarono uno, due, tre come se fossero già stati d’accordo, poi corsero contro la porta murata. Quando i primi due salirono sul gradino, persero parte dello slancio. L’ariete batté contro le pietre con un tonfo risonante, ma non ottenne nulla.

— Bene, ragazzi — disse l’alcalde. — Riprovateci. Fate vedere a tutti di che stirpe sono gli uomini di Saltus.

I quattro avanzarono una seconda volta e i due che stavano davanti affrontarono il gradino con maggiore abilità; le pietre che chiudevano la porta tremarono sotto la violenza dell’urto, e dalla calce si levò una nuvola di finissima polvere. Dalla folla fuoriuscì un volontario, un uomo massiccio con la barba nera, e si unì ai quattro che sorreggevano l’ariete. Riprovarono, tutti e cinque; il rumore non fu molto più forte, ma fu seguito da uno scricchiolio, come di ossa che si rompessero. — Ancora una volta! — disse l’alcalde.

Aveva ragione. Il colpo seguente fece precipitare all’interno della casa la pietra colpita dal tronco, aprendo un varco grande quanto la testa di un uomo. Da quel momento i volontari che spingevano l’ariete smisero di prendere la rincorsa: fecero cadere altre pietre muovendo il tronco con le braccia fino a quando l’apertura fu abbastanza estesa da lasciar passare un uomo.

Qualcuno che prima non avevo notato aveva portato diverse torce e un ragazzo corse in una casa vicina per accenderle, quindi vennero consegnate agli uomini armati di giavellotti e di bastone. Rivelando un coraggio maggiore di quello che io avrei attribuito a quei suoi occhi astuti, l’alcalde estrasse dalla camicia una corta roncola e si fece avanti per primo. Noi spettatori ci accalcammo dietro gli uomini armati e io e Jonas, che eravamo nella prima fila dei curiosi, raggiungemmo quasi subito il varco.

L’aria era maleodorante, molto più di quanto avessi immaginato. Dappertutto si vedevano mobili sfasciati, come se Barnoch avesse chiuso a chiave cassetti e armadi prima che arrivassero gli uomini a murargli la casa e quelli avessero dovuto rompere tutto per recuperare il bottino. Su un tavolo zoppo vidi la cera di una candela consumata fino al legno. Alle mie spalle la gente premeva per farci avanzare e io, mi resi conto con stupore, premevo per tenerla indietro.

In fondo alla casa si udì uno scalpiccio, passi affrettati e incerti… un urlo… poi un grido acuto, inumano.

— L’hanno preso! — esclamò qualcuno dietro di me, e sentii che l’annuncio passava di bocca in bocca.

Un uomo piuttosto grasso, probabilmente un contadino, arrivò correndo dall’oscurità con in mano una torcia e un bastone. — Levatevi di mezzo! Indietro, tutti quanti! Lo stanno portando fuori!

Non so che cosa mi aspettassi di vedere… forse un essere abominevole con i capelli aggrovigliati. Invece mi trovai di fronte uno spettro. Barnoch era alto, nonostante fosse curvo e magrissimo, con la pelle talmente pallida che luccicava, come luccica il legno putrefatto. Era glabro, completamente calvo e senza barba; nel pomeriggio mi sarebbe stato detto dai suoi guardiani che aveva preso l’abitudine di strapparsi i peli. La parte più terrificante del suo aspetto erano gli occhi: sporgenti, apparentemente ciechi, scuri come l’ascesso nero della bocca. Quando parlò, avevo la testa voltata dall’altra parte, ma capii che si trattava della sua voce. — Mi libererà! — disse. — Vodalus! Vodalus verrà!

Come avrei voluto, in quell’istante, non essere mai stato imprigionato a mia volta! Quelle parole mi riportarono alla memoria tutti i giorni senz’aria trascorsi nella segreta sotto la Torre di Matachin. Anch’io avevo sognato che Vodalus venisse a liberarmi, avevo sognato una rivoluzione che spazzasse via il fetore animalesco e la degenerazione della nostra epoca per restaurare la grande, magnifica cultura che un tempo era stata il patrimonio di Urth.

E a salvare me non era stato Vodalus né il suo misterioso esercito, bensì il Maestro Palaemon, oltre a Drotte, Roche e i miei pochi altri amici che avevano convinto i confratelli che uccidermi sarebbe stato troppo pericoloso e trascinarmi dinnanzi a un tribunale troppo disonorevole.

Nessuno avrebbe salvato Barnoch. Io, che avrei dovuto essere un suo alleato, lo avrei marchiato, lo avrei straziato alla ruota e infine gli avrei tagliato la testa. Mi sforzai di convincermi che forse aveva agito solo per i soldi, ma proprio in quel momento un oggetto metallico, certamente la punta d’acciaio di un giavellotto, batté contro una pietra e a me sembrò di sentire ancora il tintinnio prodotto dalla moneta regalatami da Vodalus quando l’avevo lasciata cadere nel nascondiglio del mausoleo in rovina.

Succede, quando la niente è tanto concentrata in un ricordo, che gli occhi, abbandonati a se stessi, colgano in mezzo a una massa di dettagli un particolare e lo evidenzino con una chiarezza che l’attenzione non è mai in grado di dare. Capitò anche a me. Nella marea in movimento dei volti oltre la porta, ne colsi uno rivolto verso l’alto e rischiarato dal sole. Il volto di Agia.

III

LA TENDA DEL FENOMENO VIVENTE

Quell’istante si cristallizzò come se noi due, e tutti quelli che ci stavano intorno, facessimo parte di un dipinto. Il volto sollevato di Agia, i miei occhi spalancati; rimanemmo così, attorniati dalla folla dei campagnoli con i loro vestiti sgargianti e i fagotti colorati. Poi io mi mossi e lei scomparve. L’avrei raggiunta, se avessi potuto, ma faticai a farmi largo in mezzo ai curiosi e mi ci vollero circa cento battiti del cuore prima di arrivare nel punto in cui l’avevo vista.

Agia era svanita e la gente vorticava e mutava come l’acqua sotto la prua di una barca. Barnoch era stato portato all’aperto e urlava nel vedere il sole. Afferrai per la spalla un minatore e gli urlai una domanda, ma quello non aveva notato la giovane donna che poco prima era vicino a lui e non aveva idea della direzione da lei presa. Mi accodai alle persone che seguivano il prigioniero fino a quando non mi fui accertato che Agia non era fra loro; poi, dal momento che non sapevo cos’altro fare, iniziai a perlustrare tutta la fiera, curiosando nelle tende e nei chioschetti e interrogando le contadine che erano venute a vendere i croccanti pani al cardamomo, e i venditori di carne calda.

Tutto questo, nel momento in cui lo scrivo tracciando adagio un filo di inchiostro scarlatto nella Casa Assoluta, mi appare calmo e addirittura metodico. Ma non corrisponde affatto alla verità dei fatti. Ero affannato e sudato mentre portavo avanti la mia ricerca, gridando domande quasi senza aspettare la risposta. Come un viso scorto nel sogno, il volto di Agia aleggiava davanti alla mia mente: le guance larghe e piatte e il mento delicatamente arrotondato, la pelle ricoperta di efelidi, abbronzata, e gli occhi allungati, ridenti, ironici. Non riuscivo a capire per quale motivo si trovasse lì; sapevo solo che c’era, e che il rivederla aveva risvegliato l’angoscia provocata in me dal suo urlo.

— Hai visto una donna alta così, con i capelli castani? — Lo domandavo a tutti, come il duellante che ripeteva «Cadroe delle Diciassette Pietre», fino a quando la frase perse il suo significato, simile al canto della cicala.

— Sì. Tutte le ragazze di campagna vengono qui.

— Sai il suo nome?