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Il tetto in realtà non era piatto e anzi, possedeva una tale pendenza che a ogni passo temevo di cadere. La superficie, dura e irregolare, pareva fatta di tegole… una delle quali a un certo punto si staccò, scricchiolando e rotolando sulle altre fino a quando cadde nel vuoto e si frantumò sul lastricato irregolare, là sotto.

Quando ero un giovane apprendista, troppo piccolo per poter ricevere incarichi difficoltosi, venni inviato alla torre delle streghe per consegnare una lettera, al di là del Vecchio Cortile. (In seguito scoprii che c’era una valida ragione per mandare solo bambini impuberi a consegnare i messaggi resi necessari dalla vicinanza alle streghe.) Adesso so quale orrore ispirasse la nostra torre non solo agli abitanti del quartiere ma anche a tutti gli altri residenti della Cittadella, e la mia paura mi appare incredibilmente ingenua; ma allora era sincera, per un bambinetto goffo quale ero. Avevo sentito raccontare dagli apprendisti più grandi delle storie terrificanti e avevo constatato che bambini senza dubbio più coraggiosi di me erano spaventati. In quella torre, la più sottile dell’intera Cittadella, di notte risplendevano strane luci colorate. Le urla che sentivamo nei dormitori non provenivano da una stanza sotterranea come la nostra camera degli interrogatori, ma dai piani più alti; e noi sapevamo che erano le streghe stesse a gridare, non i loro clienti, perché loro non avevano clienti nel senso che noi attribuivamo a quel termine. Quelle urla non erano ululati di agonia o di pazzia.

Mi era stato detto di lavarmi le mani per non sporcare la busta e, mentre mi avviavo in mezzo alle pozzanghere d’acqua ghiacciata che costellavano il cortile, mi vergognavo perché erano umide e rosse. La mia fantasia aveva immaginato una strega incredibilmente dignitosa e sprezzante, che mi avrebbe senz’altro punito per aver osato consegnarle la lettera con le mani rosse e che mi avrebbe fatto tornare dal Maestro Malrubius con una nota di biasimo.

Ero davvero molto piccolo e dovetti spiccare un salto per arrivare al picchiotto. Il rumore delle mie suole sottili sul gradino logoro mi è rimasto impresso nella memoria.

— Sì? — La faccia che mi fissava era poco più in alto della mia. Era una di quelle facce che fanno pensare contemporaneamente alla bellezza e alla malattia, straordinaria fra le centinaia di migliaia di facce che ho visto. La strega mi apparve vecchia: doveva avere all’incirca vent’anni; ma non era alta e aveva il portamento curvo della vecchiaia. Il suo viso era talmente bello ed esangue da apparire come una maschera d’avorio scolpita da un grande artista.

Porsi la lettera, senza profferire parola.

— Seguimi — disse lei. Era quello che avevo temuto e dopo essere state pronunciate quelle parole mi apparvero inevitabili come il susseguirsi delle stagioni.

Entrai in una torre molto diversa dalla nostra. Quella dei torturatori era massiccia e opprimente, costruita con lastre di metallo talmente connesse che con il passare del tempo avevano costituito un unico corpo, e i piani più bassi erano afosi e grondanti d’umidità. Nella torre delle streghe niente appariva solido, e in realtà ben poche cose lo erano. In seguito, il Maestro Palaemon mi disse che quella torre era una delle più antiche dell’intera Cittadella, ed era stata edificata quando era in uso la tendenza a imitare con materiali inanimati la fisiologia umana; perciò erano stati usati scheletri d’acciaio per sorreggere una trama di sostanze più inconsistenti. Con il trascorrere dei secoli, tale scheletro si era completamente corroso… e la struttura che gli stava intorno era sostenuta solamente dalle riparazioni effettuate di generazione in generazione. Saloni immensi erano separati da muri il cui spessore non superava quello dei drappi; nessun pavimento era pianeggiante, nessuna scala era diritta; mi sembrava che ogni ringhiera e ogni balaustrata che toccavo potesse restarmi in mano. Le pareti erano colme di segni gnostici fatti con il gesso bianco, verde e porpora, ma i mobili erano molto scarsi e l’aria pareva più fredda che all’esterno.

Dopo aver salito numerose rampe di scale e una scala a pioli ottenuta con i tronchi sottili e non privati della corteccia di una pianta odorosa, venni presentato a una vecchia, seduta sull’unica sedia che avevo visto là dentro. Era intenta a guardare qualcosa che sembrava un paesaggio artificiale abitato da animali senza pelo e deformi attraverso il piano di vetro di un tavolo. Le consegnai la lettera e venni condotto via; ma per un istante mi aveva guardato e il suo volto, come quello della giovane-vecchia che mi aveva accompagnato da lei, era rimasto impresso nella mia memoria.

Ho raccontato tutto questo perché mentre adagiavo Jolenta sulle tegole vicino al fuoco mi sembrava che le donne raggomitolate vicino alle fiamme fossero le stesse di quell’episodio. Non era possibile: la vecchia a cui avevo consegnato la lettera doveva essere già morta e la giovane (se viveva ancora) doveva essere mutata tanto da non riuscire più a riconoscerla, come me. Eppure le facce che si voltarono nella mia direzione erano quelle che avevo fissato nella mia memoria. Forse esistono solo due streghe, al mondo, e rinascono in continuazione.

— Che cos’ha quella donna? — domandò la più giovane. Io e Dorcas glielo spiegammo, come potevamo.

Prima ancora che avessimo terminato di parlare, la più vecchia appoggiò sulle sue ginocchia la testa di Jolenta e iniziò a riversarle in gola il contenuto di una bottiglia d’argilla. — Se fosse puro le farebbe male — spiegò. — Ma questo è composto per tre quarti d’acqua. Dal momento che non desideri la sua morte, sei stato fortunato a imbatterti in noi. Non so se lo stesso vale per lei.

La ringraziai e chiesi dove fosse andata la terza persona che prima era seduta vicino al fuoco.

La vecchia fece un sospiro e mi guardò per un istante prima di rivolgere nuovamente l’attenzione su Jolenta.

— Eravamo solo noi due — rispose la più giovane. — Hai visto qualcun altro?

— Sì, e molto bene, nella luce del fuoco. Tua nonna, se si tratta di tua nonna, ha sollevato la testa e mi ha rivolto la parola. Tu e la terza persona che era con voi avete alzato il capo e poi l’avete riabbassato.

— Lei è la Cumana.

Quel nome non mi era sconosciuto, ma per un istante non ricordai niente al riguardo; e il volto della donna più giovane, immobile come quello di un’oreade dipinta, non mi aiutava affatto.

— La veggente — disse Dorcas. — E tu chi sei?

— La sua discepola. Il mio nome è Merryn. Forse è significativo che voi, che siete in tre, abbiate visto tre persone vicino al fuoco mentre noi, che siamo in due, dapprima avevamo scorto solo due di voi. — La giovane guardò la Cumana come per ottenere il suo consenso, quindi, come se l’avesse avuto, tornò a voltarsi verso di noi; eppure in apparenza non si erano scambiate nessun cenno.

— Sono del tutto sicuro di aver visto una terza persona, più alta di voi — ribattei.

— Questa è una strana sera e coloro che volano nell’aria notturna potrebbero aver deciso di assumere temporaneamente sembianze umane. Bisogna vedere se tale potenza intenda mostrarsi anche a voi.

L’espressione dei suoi occhi scuri e del suo viso sereno era tale che le avrei certamente creduto se Dorcas non mi avesse suggerito con un movimento quasi impercettibile della testa che la terza persona poteva essersi nascosta alla nostra vista ritirandosi nella parte opposta del tetto.

— Forse sopravviverà — disse la Cumana, senza staccare gli occhi dalla faccia di Jolenta. — Anche se non vuole.

— È stato un bene per lei che voi due aveste tanto vino — commentai.