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Eusebia stava per parlare di nuovo, ma la zittii con un’occhiata. L’uomo sogghignante e senza denti vicino a lei agitò la mano in cenno di saluto e, con un sussulto di sorpresa, riconobbi in lui Hethor.

— Sei pronto? — mi chiese Morwenna. — Io lo sono.

Jonas aveva appena posato sul palco un secchio di carboni ardenti dal quale spuntava quello che doveva essere il manico di un ferro da marchiatura. Ma la sedia mancava ancora. Rivolsi all’alcalde uno sguardo che voleva essere significativo.

Era come fissare un palo. Infine domandai: — Abbiamo una sedia, onorevolissimo?

— Ho mandato due uomini a prenderla. E ho ordinato anche una corda.

— Quando? — La folla iniziava ad agitarsi e a bisbigliare.

— Alcuni istanti fa.

La sera precedente mi aveva garantito che sarebbe stato tutto pronto, ma in quel frangente sarebbe stato inutile ricordarglielo. Non c’è nessuno, come ho avuto modo di appurare in seguito, che vada in confusione su un patibolo quanto un dignitario rurale. Egli si trova infatti diviso fra il desiderio ardente di essere al centro dell’attenzione, cosa che nel caso di un’esecuzione non è possibile, e la paura di non possedere l’esperienza e le capacità per comportarsi nel modo migliore. Persino il cliente più vigliacco, che sale le scale sapendo che gli verranno strappati gli occhi, diciannove volte su venti si comporta meglio. Persino un timido cenobita, non aduso alle voci degli uomini e diffidente sino al timore, merita una maggiore fiducia.

Qualcuno urlò: — Fatela finita!

Guardai Morwenna. Con il volto incavato e la pelle chiara, il sorriso pensoso e i grandi occhi scuri, poteva generare nella folla una indesiderata simpatia.

— Potremmo farla sedere sul ceppo — proposi all’alcalde. Non riuscii a trattenermi e aggiunsi: — Del resto, è più indicato per questo.

— Non abbiamo niente per legarla.

Mi ero già permesso un commento di troppo, perciò non dissi la mia opinione al riguardo di coloro che avevano bisogno di legare i prigionieri.

Così, posai Terminus est dietro il ceppo, feci sedere Morwenna e sollevai le braccia nell’atavico saluto, quindi presi il ferro con la mano destra e, tenendole i polsi con la sinistra, le impressi il marchio sulle guance, poi alzai il ferro ancora incandescente. A quell’urlo la folla si era ammutolita per un istante, dopodiché iniziò a ruggire.

L’alcalde si raddrizzò. Pareva un altro uomo. — Mostragliela — disse.

Io avevo sperato di evitarlo, ma dovetti aiutare Morwenna ad alzarsi. Tenendola per mano, quasi stessimo eseguendo una contraddanza, feci lentamente il giro del palco. Hethor era pazzo di felicità e, sebbene cercassi di non dare ascolto al suono della sua voce, sentivo che si vantava di conoscermi con la gente che gli stava intorno. Eusebia porse il mazzo a Morwenna urlando: — Ecco, presto ne avrai bisogno.

Dopo aver terminato il giro, guardai l’alcalde e, lasciato passare il tempo necessario perché lui si domandasse il motivo del ritardo, mi fece cenno di proseguire.

— Finirà presto? — mormorò Morwenna.

— È quasi finito. — La feci sedere nuovamente sul ceppo e ripresi la spada. — Chiudi gli occhi. Cerca di ricordare che tutti quelli che sono vissuti sono morti, anche il Conciliatore, che risorgerà come il Nuovo Sole.

Lei abbassò le palpebre pallide dalle lunghe ciglia e non vide la spada alzata. Il lampo dell’acciaio fece ammutolire nuovamente la folla e una volta ottenuto il silenzio completo colpii le cosce di Morwenna con il piatto della lama; il rumore dei femori che si spezzavano riecheggiò nitido come il crak-crak dei pugni di un pugile vittorioso. Morwenna rimase per un istante seduta sul ceppo, svenuta, ma senza cadere. In quel frangente indietreggiai di un passo e le recisi il collo con il colpo orizzontale che è molto più difficile da eseguire di quello dall’alto in basso.

Per dire la verità, solo quando vidi il sangue sgorgare e udii il tonfo della testa che cadeva sulla piattaforma capii di esserci riuscito. Nonostante non me ne fossi reso conto, ero nervoso quanto l’alcalde.

Quello è il momento in cui, sempre secondo le antiche usanze, l’abituale dignità della corporazione si infrange. Volevo ridere e far capriole. L’alcalde mi scuoteva una spalla e farfugliava come avrei voluto fare io stesso; non capivo le sue parole… certo qualche sciocchezza. Sollevai la spada, presi la testa per i capelli, alzai anche quella e feci il giro del palco. Non uno solo, ma tre o quattro.

S’era alzata una brezza che macchiava di scarlatto la mia maschera e il braccio e il petto nudi. La gente urlava le consuete battute: — Vuoi tagliare i capelli di mia moglie (o di mio marito)? Mezza misura di salsicce quando avrai terminato. Posso avere il suo cappello?

Ridevo di tutti e fingevo di gettare loro la testa. All’improvviso qualcuno mi tirò per un piede. Era Eusebia, e prima ancora che profferisse una sola parola compresi che era spinta da quell’ossessione di parlare che avevo notato spesso nei clienti della nostra torre. I suoi occhi brillavano e il suo volto era contorto per attirare la mia attenzione; pareva nello stesso tempo più vecchia e più giovane di prima. Non riuscivo a capire che cosa stesse urlando, perciò mi chinai ad ascoltare.

— Innocente! Era innocente!

Non era il momento di spiegarle che non avevo giudicato io Morwenna, così mi limitai ad annuire.

— Mi aveva portato via… Stachys! Adesso è morta. Capisci? Era innocente, ma sono tanto felice!

Annuii una seconda volta e continuai il giro del palco, mostrando la testa.

— L’ho uccisa io! — gridò Eusebia. — Non tu!

— Se vuoi! — le risposi.

— Innocente! La conoscevo… era tanto prudente. Avrebbe tenuto un po’ di veleno per sé! Sarebbe morta prima che ci pensassi tu a ucciderla.

Hethor mi afferrò un braccio e mi additò: — Il mio padrone! Mio! Mio!

— Così è stato qualcun altro. O forse è stata veramente una malattia…

Io urlai: — Solo al Demiurgo spetta la giustizia! — La folla era ancora festante, nonostante si fosse un po’ calmata.

— Ma lei mi aveva rubato il mio Stachys e adesso è morta! — Eusebia gridò ancora più forte. — Stupendo! È morta! — Nascose la faccia nel mazzo di fiori, quasi che volesse riempirsi i polmoni del loro soffocante profumo. Lasciai ricadere la testa di Morwenna nel cesto e asciugai la lama sul pezzo di flanella porpora che Jonas mi porgeva. Quando volsi nuovamente lo sguardo verso Eusebia, era senza vita, stesa a terra al centro di un gruppo di curiosi.

Al momento non vi badai, convinto che l’eccesso di gioia le fosse stato fatale. Ma quel pomeriggio l’alcalde fece esaminare il mazzo dal farmacista e fra i petali venne trovato un veleno forte e sottile, non identificabile. Probabilmente Morwenna l’aveva in mano e l’aveva gettato sui fiori quando le avevo fatto compiere il giro intorno al palco, dopo averla marchiata.

Permettete che mi fermi un istante e che vi parli da mente a mente, anche se forse ci separa l’abisso degli eoni. Nonostante quanto ho già scritto — dalla porta chiusa alla fiera di Saltus — comprenda gran parte della mia vita da adulto e quanto mi resta da raccontare riguardi appena pochi mesi, sento di non essere ancora giunto a metà della mia opera. Per non colmare una biblioteca grande come quella del vecchio Ultan, sorvolerò su molti particolari, vi avviso apertamente. Ho descritto l’esecuzione di Agilus, il fratello gemello di Agia, perché era importante per la mia storia, e quella di Morwenna per le insolite circostanze che la accompagnarono. Non ne descriverò altre, a meno che non svolgano un ruolo importante. Se godete nell’ascoltare le sofferenze e la morte degli altri, da me ricaverete ben poca soddisfazione. Basti dire che feci tutto quello che era stato stabilito al ladro di bestiame, terminando con la sua esecuzione; d’ora in poi, nel raccontare i miei viaggi, dovete tener presente che io esercitai il mestiere della mia corporazione quando era redditizio farlo, anche se non ne parlerò direttamente.