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Il Grand Canyon e le mille e più miglia quadrate di territorio circostante che formavano il parco nazionale del Grand Canyon si trovavano ancora a più di ottanta miglia a nord, raggiungibili tramite una stretta strada statale e varie strade secondarie che attraversavano un altipiano parzialmente coperto da fitte foreste.

Quelle ottanta miglia passarono senza particolari novità, ma non appena pagato il pedaggio per l’accesso al parco, il traffico sulle piccole, strette e tortuose stradine di accesso divenne semplicemente caotico. Alla fine si ritrovarono intrappolati in una coda chilometrica lungo la strada per l’altopiano meridionale. Ogni tanto un rustico segnale indicava la via per Pima Point, per il museo degli indiani Tuskaya o per qualcuno dei motel o campeggi sparsi un po’ dappertutto e chiamati con nomi esotici quali Yavapai, Maswik, Kachina e il classico Thunderbird, “uccello di tuono”.

Infine l’hotel El Tovar comparve alla vista tra i bassi edifici di un piccolo agglomerato largamente nascosto dagli alberi; pietra, legno e tavole di mogano per una costruzione di tre piani. Le sue numerose ali si estendevano tanto tra gli abeti da accogliere più di cento stanze matrimoniali. Secondo l’opuscolo dato loro al casello, il margine dell’altopiano si trovava a un tiro di schioppo dall’albergo: forse era vero, ma purtroppo la pendenza del terreno era tale da impedire del tutto la vista diretta del Grand Canyon.

Bill, a cui toccava l’ultimo turno al volante, fece del suo meglio per trovare velocemente un posto nel parcheggio più vicino all’El Tovar, ma molte altre macchine stavano facendo esattamente la stessa cosa. Maria imprecò in silenzio quando il solito furbo rubò loro il posto sotto il naso. Era una donna dai capelli neri, giovane e attraente, dal fisico solido e ben proporzionato e l’aspetto più giovanile dei suoi venticinque anni. Bill aveva due anni più di lei, i capelli e la carnagione molto più chiari e un fisico estremamente robusto. Le mille manovre e il ritardo necessari a procurarsi un parcheggio non gli impedirono minimamente di fischiettare tutto il tempo il morbido ritmo di una canzone alla moda.

E finalmente anche loro trovarono un posto.

Uscendo dalla macchina con la giacca a vento multicolore e i moon-boot ai piedi, spazzatura standard in quel momento e in quel luogo, Bill e Maria si stiracchiarono con piacere dopo il lungo viaggio per poi infilarsi gli zaini e controllare gli orologi. Avevano qualche minuto a disposizione prima che l’onnipotente Mr. Keogh cominciasse seriamente ad aspettarli.

— Perché non diamo un’occhiata al canyon? C’è un po’ di nebbia, ma possiamo perlomeno provare.

— Già, sarebbe un peccato non farlo. E poi lo dice anche il manuale del perfetto detective: “Familiarizzarsi subito con l’ambiente”. Basta questo, no?

Guardandosi attentamente intorno dal punto in cui si trovavano nel parcheggio, i due giovani detective si accorsero di una strana caratteristica del paesaggio che non aveva nulla a che fare con la nebbia. A soli pochi metri oltre il vecchio e grande albergo il mondo terminava bruscamente nel nulla. O almeno questa fu l’impressione che ne ricevettero Bill e Maria: di fatto la salita terminava bruscamente a un certo punto, e solo un parapetto in pietra alto meno di un metro segnava il limite dell’orizzonte. Oltre quella modesta barriera non si vedeva assolutamente nulla, tranne le grigie sfumature del cielo invernale che sembrava essersi abbassato a livello del terreno.

Superato l’albergo, Bill e Maria mossero decisi verso il parapetto solo per accorgersi che era massicciamente difeso dal solito gruppo di turisti giapponesi armati di potenti telecamere e corazzati contro il freddo. Facendosi largo tra la folla, i due americani riuscirono infine a gettare un’occhiata verso il basso. Lo sguardo precipitò sempre più sotto in un infinito abisso di vapore, con una singola eccezione: in una certa zona persa tra la nebbia, ma molto sotto di loro, a una distanza obliqua di un centinaio di metri, un’immensa cresta rocciosa spuntava dal nulla per diventare visibile a intermittenza attraverso le volute in lento movimento. Intorno a quella piccola concessione alla solidità, su cui spuntava una manciata di ispidi abeti, e nel raggio di chilometri, nulla risultava percettibile se non un fluttuante mare di grigie nubi davanti al quale anche le telecamere dei giapponesi dovevano inchinarsi.

Maria Torres si accorse a quel punto che qualcuno stava per unirsi a loro.

Infatti Bill, momentaneamente perso nei suoi pensieri e ancora intento ad afferrare fino in fondo ciò che vedeva, non si era accorto che un uomo di piccola statura con barba e capelli neri era improvvisamente sbucato dalla folla alle sue spalle per muovere verso di lui. Il nuovo arrivato vide Maria, si fermò proprio accanto a Bill e attese in silenzio per alcuni minuti prima di venir notato dal giovane investigatore, una distrazione davvero imbarazzante per un professionista.

Percependo una certa inquietudine nello sguardo di Maria, Bill volse finalmente la testa. L’uomo con la barba, abbastanza vicino a lui da poterlo toccare, si limitò a sorridere amabilmente.

Seguì un breve intervallo in cui i tre si guardarono senza dire una parola, completamente ignorati dai giapponesi e dagli altri turisti dediti a fare avanti e indietro dal parapetto nonostante la visibilità praticamente nulla.

— Posso fare qualcosa per lei? — chiese finalmente Bill.

L’uomo con la barba rispose prontamente, come se avesse atteso solo il momento di parlare. — Mi consenta di presentarmi — disse con voce calma e profonda. — Mi chiamo Strangeway, e credo proprio di esser destinato a lavorare con voi per qualche giorno.

— Cosa? Amico mio, lei deve aver sbagliato…

— Niente affatto.

Bill lo guardò attonito, o perlomeno ci provò, risultando alla fin fine abbastanza convincente. D’altro canto anche Maria non faticava certo a nascondere la sua sorpresa.

— Mi spiace — replicò Bill allo sconosciuto, suonando finalmente deciso. — Lei deve averci confuso con qualcun altro.

Strangeway si concesse un altro pallido sorriso, come di blanda approvazione. — In tal caso, la prego di perdonare la mia impertinenza — mormorò, voltandosi subito dopo e lanciando un’occhiata tanto intensa nella nebbia che riempiva il canyon da far supporre che potesse vedervi attraverso. Vagamente e senza darvi alcun peso particolare, Maria notò che il fiato dello sconosciuto non condensava nell’aria gelida come il suo o quello di Bill.

Dopo un altro minuto di imbarazzante silenzio, Bill fece un cenno a Maria e i due tornarono verso l’albergo lasciandosi il canyon alle spalle. Guardandosi indietro dopo una decina di metri, Maria vide Strangeway ancora intento a guardare in basso, del tutto indifferente alla direzione presa da loro due.

— Che diavolo credi volesse da noi? — mormorò la ragazza a Bill quando furono a distanza di sicurezza.

— Non saprei. Forse è solo un innocuo svitato, ma forse ci hanno scoperti: resta da vedere chi. Amici o nemici?

L’ampio e dispersivo hotel di tre piani, tutto legno, pietre e travi consunte dal tempo, era ormai davanti a loro. Un attimo più tardi Bill e Maria presero a percorrere il lungo porticato di legno che conduceva all’ingresso principale. Visto da vicino, l’edificio appariva ancora più solido e stabile. Incisa nel legno sopra l’ingresso, Maria notò un’iscrizione, una frase o forse un verso celebre, che diceva:

SOGNI DI MONTAGNE MENTRE NEL LORO SONNO
ESSE MEDITANO SULLE COSE ETERNE

Le immagini evocate nella mente di Maria da quelle parole risultarono incomplete, ma in qualche modo inquietanti. Si chiese vagamente da dove uscisse quella frase. Nel suo breve soggiorno in un college aveva scoperto di essere una sorta di maggiore britannico e provava una profonda irritazione se leggeva o sentiva una citazione e non riusciva a ricordarne la fonte.