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Valona intese un movimento lievissimo, uno scricchiolio lontano ancora più leggero, e si rese conto che il Borgomastro se n’era andato. Strizzò gli occhi nelle tenebre, sforzandosi di pensare. Come mai il Borgomastro l’aveva messa in guardia contro il Fornaio che odiava i pattugliatori e li aveva salvati? Come mai?

Scosse la testa. Tutto ciò le sembrava tanto strano! Se non fosse stato per quello che le aveva detto il Borgomastro non le sarebbe mai venuta in mente una idea simile.

Il silenzio irreale della stanza fu rotto da una domanda fatta a voce alta e in tono insolente: «Ehi? Siete ancora qui?»

Valona s’irrigidì mentre un fascio di luce la colpiva in pieno.

Aveva immediatamente riconosciuto l’interlocutore. La sagoma atticciata, massiccia torreggiò nella mezza luce che traspariva dalla torcia abbassata.

Il Fornaio disse: «Sai, credevo che saresti andata via con lui.»

Valona chiese con un fil di voce: «Con chi, signore?»

«Col Borgomastro. Lo sai bene che se ne è andato. Non sprecare il tempo a fingere.»

«Ma ha detto che tornerà.»

«Davvero? Se ha detto veramente così ha avuto torto perché i pattugliatori lo acciufferanno. Non è troppo furbo il tuo Borgomastro, altrimenti avrebbe capito che quando un uscio rimane aperto lo si lascia aperto per uno scopo ben preciso. Hai intenzione di andartene anche tu?»

Valona disse: «Io aspetto il Borgomastro.»

«Fa’ come ti pare. Ma dovrai aspettare un pezzo. Però puoi anche andartene quando vorrai.»

Improvvisamente il fascio della sua lampadina tascabile si spostò e prese a viaggiare lungo il pavimento, fissandosi poi sulla faccia pallida di Rik. Le palpebre di Rik sbatterono automaticamente sotto l’urto della luce, ma lui seguitò a dormire.

Il Fornaio si fece più pensieroso: «Ti consiglio però di andartene sola. Spero che tu mi capisca. Se decidi di tagliare la corda, la porta è aperta, ma bada che non è aperta per lui.»

«Ma non è che un povero diavolo ammalato…» cominciò Valona.

«Davvero? Be’, io faccio collezione di poveri diavoli ammalati. Che lui non si muova di qui. Intesi?»

5

Il dottor Selim Junz era impaziente. Quell’anno gli aveva insegnato che la Burocrazia sarkita non aveva fretta, tanto più che i burocrati erano quasi tutti floriniani trapiantati e pertanto estremamente consapevoli della loro dignità.

Aveva chiesto una volta al vecchio Abel, l’Ambasciatore di Trantor, il quale viveva da tanto tempo su Sark che le suole delle sue scarpe vi avevano messo radici, come mai i sarkiti consentissero a che le varie branche del loro governo fossero amministrate proprio dai floriniani tanto disprezzati.

«Tutta politica, Junz» aveva risposto Abel «tutta politica. Si tratta di una questione di genetica pratica, condotta con logica sarkita. Presi di per sé questi sarkiti non sono niente, non rappresentano che un piccolo mondo senza importanza, e valgono solo in quanto controllano quella inesauribile miniera di oro che è Florina. Per questo ogni anno vanno nei campi e nei villaggi di Florina, raccogliendo il meglio della gioventù per addestrarla su Sark.»

Il dottor Junz era prima di tutto uno Spazio-Analista e pertanto queste cose non le capiva, né esitò a dirlo. Abel puntò su di lui un indice accusatore.

«Lei non diventerà mai un buon amministratore, perciò non mi chieda raccomandazioni» disse. «Gli elementi più intelligenti di Florina vengono guadagnati alla causa sarkita spontaneamente, poiché sino a quando servono Sark sono amorosamente curati e protetti, mentre se voltano la schiena a Sark la miglior cosa in cui possono sperare è il ritorno a un’esistenza floriniana che non è simpatica, amico mio, non è simpatica affatto.»

Bevve il vino d’un fiato e prosegui: «Inoltre, né i Borgomastri né gli impiegati statali di Sark possono generare senza perdere le loro rispettive posizioni. Anche con donne floriniane, beninteso, poiché la mescolanza con elementi sarkiti è naturalmente fuori questione. In tal modo il meglio del genere floriniano viene continuamente tolto dalla circolazione, cosicché a poco a poco la popolazione di Florina sarà composta unicamente di spaccalegna e di acquaioli.»

«In ogni caso resteranno senza impiegati, con questo sistema, non le pare?»

«Chi può prevedere ciò che riserva il futuro?»

Ora il dottor Junz sedeva in un’anticamera del Ministero degli Affari Floriniani e attendeva con impazienza di essere ricevuto. Finalmente gli si parò davanti un impiegato anziano, invecchiato nel servizio.

«Il dottor Junz?»

«Sono io.»

«Venga con me.»

Gli venne imposto con un gesto di sedere davanti alla scrivania dell’Assistente del Sottosegretario. Naturalmente nessun floriniano poteva andare oltre il grado di assistente, per quante fossero le sue mansioni effettive e nonostante la loro importanza. Il Sottosegretario e il Segretario degli Affari Floriniani erano naturalmente sarkiti, ma benché il dottor Junz li potesse frequentare in società, sapeva che non li avrebbe mai incontrati al Ministero.

L’Assistente scorreva con grande attenzione un incartamento, rigirandone minuziosamente ogni pagina cifrata. Era giovanissimo, un neo-laureato, probabilmente, e come tutti gli abitanti di Florina chiarissimo di pelle e biondo di capelli.

Il dottor Junz si sentì percorrere da un brivido di emozione atavica. Lui proveniva dal mondo di Libair, e come tutti i libairiani era fortemente pigmentato e la sua pelle era di un colore bruno scuro. In pochi mondi della Galassia il colore della pelle era così opposto come su Libair e Florina. In genere predominavano le sfumature intermedie.

Alcuni tra i giovani antropologi radicali avevano lanciato la tesi che gli abitanti di mondi come Libair, per esempio, fossero sorti da una evoluzione indipendente se pur convergente. Invece i più anziani ripudiavano sdegnosamente il concetto di una evoluzione che facesse convergere specie diverse nel punto in cui fosse possibile una intergenerazione, come era certamente il caso per gli infiniti mondi della Galassia. Insistevano sul fatto che sul pianeta originario, quale che esso fosse, già l’umanità si fosse trovata divisa in sottogruppi di pigmentazione varia.

Ogni tanto il dottor Junz si sorprendeva a rimuginare entro di sé quell’insolubile quesito. Nei millenni oscuri erano state tramandate, per chissà quali misteriose ragioni, le leggende di un passato di lotta. I miti libairiani, per esempio, parlavano di lunghe guerre tra uomini di pigmentazione diversa e si sosteneva che la stessa scoperta di Libair fosse dovuta a un gruppo di uomini bruni in fuga dopo una battaglia perduta.

Quando il dottor Junz aveva lasciato Libair per entrare all’Istituto Arturiano di Tecnologia Spaziale e aveva in seguito iniziato la sua professione, le antiche favole primitive erano ormai da molto dimenticate. Una sola volta, da allora, era rimasto sinceramente impressionato. Era capitato per caso, per motivi di lavoro, su uno degli antichi mondi del Settore Centauriano; uno di quei mondi la cui storia si perdeva nella notte dei tempi e il cui linguaggio era talmente arcaico che il suo dialetto poteva quasi essere paragonato a quella lingua mitica e morta da secoli che era stata l’inglese. Eppure avevano conservato un vocabolo speciale per definire un individuo dalla pelle scura.

La voce precisa dell’Assistente interruppe le sue fantasticherie. «Secondo l’incartamento, lei è già stato in questo ufficio.»

«Infatti.»

«Ma non recentemente.»

«No, non recentemente.»

«È ancora alla ricerca di uno Spazio-Analista scomparso…» l’Assistente scorse rapidamente alcune pagine «… circa undici mesi e tredici giorni fa.»

«Esatto.»

«Durante tutto questo tempo» proseguì l’Assistente «dell’uomo in questione non si è trovata traccia, né esiste alcuna prova della sua presenza in territorio sarkita.»