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«Si può sapere per quale motivo desideravate quei volumi?» La voce era inesorabile.

«Le ho già detto che non ci servono…»

Una nuova pausa, quindi la voce disse: «Se volete scendere vi daremo accesso ai volumi. Si trovano su un elenco riservato e dovrete riempire un modulo.»

«Sciocchezze. Muoviti.»

Terens tese la mano a Rik. «Andiamo.»

«Dobbiamo avere infranto qualche regola» balbettò Rik.

Terens si era messo a camminare in fretta, costringendo Rik a seguirlo. Attraversò a passi veloci la sala centrale. La bibliotecaria si alzò gridando:

«Ehi, voi! Un momento! Un momento!»

Ma né Rik né Terens si fermarono, almeno sino al momento in cui un pattugliatore non si parò loro davanti. «Ehi, quanta fretta, amici!»

La bibliotecaria poté così raggiungerli. Ansava: «Eravate voi nel 242, vero?» Aveva gli zigomi rossi. Si girò e si avviò a passi frettolosi verso una porticina che si aprì al suo avvicinarsi.

Terens disse: «Ufficiale, se non le dispiace…»

Ma per tutta risposta il pattugliatore mise in mostra la sua frusta neuronica.

Il pattugliatore non era più né giovane, né snello. Sembrava prossimo a entrare in pensione e probabilmente gli avevano dato quell’impiego tranquillo di custode della biblioteca prima di congedarlo definitivamente, ma era armato, e la giovialità della sua faccia bruna non sembrava genuina.

Terens aveva la fronte madida e si sentiva il corpo percorso da rivoli di sudore. Evidentemente aveva sottovalutato la situazione. Si era sentito così sicuro del fatto suo, e invece aveva commesso una imprudenza imperdonabile, tutto per quel suo assurdo orgoglioso desiderio di intrufolarsi nella Città Alta…

In un attimo di disperazione pensò di gettarsi sul pattugliatore, poi, inaspettatamente, non ce ne fu più bisogno.

A tutta prima fu soltanto un movimento rapidissimo. Il pattugliatore si volse un attimo troppo tardi, tradito dalle reazioni più lente dell’età. La frusta neuronica gli venne strappata di mano e prima ancora che lui potesse gridare questa gli si abbatté su una tempia facendolo crollare.

Rik lanciò un urlo di gioia, e Terens esclamò: «Valona! Per tutti i diavoli di Sark, che cosa fai qui?»

4

Terens si riebbe quasi subito. Disse: «Usciamo! Presto!» E prese a camminare.

Uscirono sulla rampa. Il sole pomeridiano rendeva l’universo caldo e luminoso.

Valona disse con voce ansiosa: «Sbrighiamoci!» Ma Terens l’afferrò per un gomito.

Sorrideva, ma il tono della voce era duro, imperioso. Disse: «Non correre. Cammina con naturalezza, e seguimi.»

Mossero pochi passi, ma avevano la sensazione di avanzare in un mare di colla. Quei rumori alle loro spalle provenivano dalla biblioteca o erano uno scherzo della loro fantasia? Terens tuttavia non osava voltarsi a guardare.

«Entriamo qui» disse. L’insegna sul viale non riusciva a competere col sole di Florina. C’era scritto: “Ingresso all’Ambulatorio.”

Percorsero il viale, infilarono un’entrata laterale, vennero a trovarsi tra pareti di un candore inverosimile che parevano blocchi di un materiale ignoto contro la vetrosità asettica del corridoio.

Una donna in uniforme li stava osservando da lontano. Esitò, corrugò la fronte, incominciò ad avvicinarsi. Terens non stette ad aspettarla. Si volse bruscamente, seguì una ramificazione del corridoio, poi un’altra. Passarono davanti ad altre infermiere in camice e Terens intuiva quale incertezza la loro presenza dovesse suscitare in loro. Era un caso senza precedenti infatti che degli indigeni si aggirassero soli ai livelli superiori di un ospedale. Come ci si doveva comportare in una circostanza simile?

Certo da un momento all’altro sarebbero stati fermati.

Perciò Terens si sentì rincuorare quando notò una porticina sulla quale era scritto: “Ai Livelli Indigeni.” L’ascensore era alla loro portata. Spinse dentro Rik e Valona.

Nella Città esistevano tre tipi di edifici. La maggior parte erano Edifici Inferiori, costruiti esclusivamente al livello inferiore; case operaie, alte tre piani al massimo, fabbriche, panetterie, impianti di distribuzione. Altri ancora erano Edifici Superiori: abitazioni sarkite, teatri, la biblioteca, le arene sportive. Ma pochi altri erano Duplici, con livelli ed entrale tanto inferiori quanto superiori ove erano alloggiate le caserme pattugliatori, per esempio, e gli ospedali.

Ci si poteva pertanto servire di un ospedale per passare dalla Città Alta alla Città Bassa evitando in tal modo l’uso dei grandi ascensori da carico, lentissimi e dove gli addetti alla manovra avevano occhi e orecchi per venti. Per un indigeno questo naturalmente era un metodo del tutto illegale, ma era niente in confronto al gravissimo crimine che avevano compiuto assalendo un pattugliatore.

Uscirono al livello inferiore. Ovunque si levava l’inquieto chiacchiericcio di una sala di aspetto piena di uomini preoccupati e di donne spaventate. Un’unica infermiera tentava, senza troppo riuscirvi, di metter un po’ d’ordine tra tanta confusione.

Terens, Valona e Rik si facevano cautamente strada tra la folla. Valona, come se la presenza di altri floriniani le avesse improvvisamente sciolto la lingua, stava mormorando:

«Ho dovuto venire, Borgomastro. Ero talmente preoccupata per Rik! Temevo che non me lo riportasse più indietro, e…»

«Come hai fatto per salire alla Città Alta?» domandò Terens seguitando a farsi largo tra la folla passiva degli indigeni.

«Vi ho seguiti e vi ho visti prendere l’ascensore da carico. Quando è ridisceso ho detto all’uomo che ero con voi, e lui mi ha condotta su.»

«Così? Semplicemente?»

«Ho dovuto scuoterlo un pochino.»

«Numi di Sark!» gemette Terens.

«Non ho potuto farne a meno» spiegò Valona con l’aria di una bambina colta in fallo. «Poi ho visto che i pattugliatori vi indicavano un edificio. Ho aspettato che se ne fossero andati e vi sono venuta dietro. Solo che non ho osato entrare. Non sapevo che cosa fare, perciò mi sono nascosta finché non vi ho visto uscire insieme al pattugliatore che cercava di fermarvi…»

I tre fuggiaschi già erano usciti nella penombra della Città Bassa ove li accolsero gli odori e il baccano di quello che i sarkiti chiamavano il Quartiere Indigeno, mentre il livello superiore era tornato a essere nuovamente un tetto sulle loro teste. Ma per quanto Valona e Rik si sentissero sollevati nel non vedersi più intorno l’opprimente ricchezza dell’ambiente sarkita, Terens seguitava a essere profondamente preoccupato. Avevano troppo osato e d’ora innanzi per loro non vi sarebbe più stata sicurezza in alcun luogo.

Questo pensiero gli torturava la mente in tumulto, quando Rik gridò: «Guardate!»

Quello era per gli indigeni della Città Bassa lo spettacolo forse più spaventoso che potessero vedere. Pareva che un gigantesco uccello scendesse volteggiando da una feritoia della Città Alta, oscurando il sole e rendendo ancora più cupa la già tetra oscurità di quel tratto della Città. Ma non era un uccello; era un carro armato aero-terrestre dei pattugliatori.

Gli indigeni si diedero a gridare e incominciarono a correre. Non avevano alcuna ragione specifica per temere, ma presero ugualmente a fuggire. Un uomo che si trovava quasi esattamente sul sentiero della macchina si trasse in disparte a malincuore. Stava proseguendo per la propria strada quando l’ombra si era distesa su di lui. Si guardò intorno, simile a una roccia imperturbata in un mare in tempesta. Era di media statura, ma aveva due spalle quasi innaturalmente larghe.

Terens esitò, e senza il suo aiuto Rik e Valona erano completamente paralizzati.

L’uomo dalle enormi spalle si stava avvicinando a loro; sostò per un attimo, come incerto, e disse con voce normalissima: «La panetteria di Khorov è la seconda a sinistra, dopo la lavanderia.»

Quindi girò bruscamente sui tacchi.