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A occidente risuonò il tuono. Kalidas distolse gli occhi dalla minaccia incombente della montagna, si volse verso quella lontana speranza di pioggia. I monsoni erano in ritardo. I laghi artificiali che alimentavano il complesso sistema d'irrigazione dell'isola erano quasi asciutti. A quell'epoca, avrebbe già dovuto vedere l'acqua scintillare nel più grande dei laghi, quello che, come sapeva benissimo, i suoi sudditi osavano ancora chiamare col nome di suo padre: Paravana Samudra, il Mare di Paravana. Era stato completato solo trent'anni prima, dopo generazioni e generazioni di lavoro. Allora, in giorni più felici, il giovane Principe Kalidas teneva fieramente il fianco del padre, e le grandi paratoie si erano aperte e l'acqua che dà la vita si era rovesciata sulla terra assetata. Nel regno intero non esisteva spettacolo più meraviglioso del dolce incresparsi di quel lago immenso, costruito dall'uomo, che rifletteva le cupole e le spirali di Ranapur, la Città d'Oro, l'antica capitale che lui aveva abbandonato per inseguire il suo sogno.

Il tuono rombò di nuovo, ma Kalidas sapeva che la sua promessa era falsa. Anche lì, sulla cima della Montagna del Maligno, l'aria era immota, stagnante. Non c'era traccia delle raffiche improvvise, imprevedibili, che annunciavano l'arrivo del monsone. Prima che giungessero le piògge, forse alle sue preoccupazioni si sarebbe aggiunta anche la carestia.

— Vostra Maestà — disse la voce paziente dell'Adigar di corte — i messi stanno per ripartire. Vorrebbero rendervi omaggio.

Ah, sì, quei due pallidi ambasciatori giunti dall'altra parte dell'oceano occidentale! Gli dispiaceva vederli partire, perché, nel loro abominevole taprobani, gli avevano portato notizie di molte meraviglie; anche se nessuna di queste, lo ammettevano loro per primi, poteva competere con quella fortezza-palazzo in cielo.

Kalidas voltò la schiena alla montagna coronata di bianco, alla terra secca e bruciata, e prese a scendere gli scalini di granito che portavano alla sala delle udienze. Dietro di lui, il ciambellano e i suoi aiutanti portavano doni d'avorio e di pietre preziose per gli uomini alti, fieri, che attendevano di salutarlo. Presto i doni di Taprobane avrebbero solcato il mare, sarebbero giunti a una città di molti secoli più giovane di Ranapur; e forse, per un po', avrebbero distolto dai suoi pensieri l'Imperatore Adriano.

Il Mahanayake Thero s'incamminò lentamente verso il parapetto nord. La sua tonaca arancione spiccava, vivacissima, contro l'intonaco bianco delle pareti del tempio. Molto più in basso si stendeva la scacchiera delle risaie che correvano da un orizzonte all'altro, le forme scure dei canali d'irrigazione, lo splendore blu del Paravana Samudra; e, oltre quel mare interno, le sacre cupole di Ranapur si ergevano in cielo come spettri, smisurate fino all'incredibile quando ci si rendeva conto della loro distanza. Aveva osservato quel panorama sempre diverso per trent'anni, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito ad afferrare ogni dettaglio della sua sfuggente complessità. Colori e linee di confine mutavano ad ognf stagione, anzi, al passare di ogni nube. "E quando anch'io sarò passato" pensò il Bodhidharma "vedrò qualcosa di nuovo".

C'era un solo elemento fuori posto in quel paesaggio dalle linee squisite. Per quanto minuscola apparisse da quell'altitudine, la massa grigia della Montagna del Maligno sembrava precipitata da un altro mondo. E infatti la leggenda raccontava che Yakkagala era un frammento di una montagna dell'Himalaya, ricca di erbe medicinali, caduta dalle mani del dio scimmia Hanuman che correva in soccorso dei suoi compagni feriti, al termine delle battaglie del "Ramayana".

Da quella distanza, ovviamente, era impossibile scorgere il minimo particolare della follia di Kalidas, tranne una linea sottile che indicava i bastioni esterni dei Giardini del Piacere. Eppure, bastava sperimentare una volta sola l'impatto della Montagna del Maligno, ed era impossibile dimenticarla. Con gli occhi dell'immaginazione, come se davvero si trovasse lì, il Mahanayake Thero vedeva le immense fauci del leone che sporgevano oltre l'orlo a strapiombo del dirupo; e più in alto incombevano i bastioni su cui (non era difficile crederlo) passeggiava ancora il Re maledetto…

Sopra di lui scoppiò il tuono, arrivò subito a un'intensità tale che l'intera montagna ne parve scossa. Riempì d'un rombo continuo, altissimo, il cielo, e poi svanì in direzione est. Per molti secondi gli echi si rincorsero ai limiti dell'orizzonte. Nessuno poteva pensare che "quello" fosse l'annuncio di piogge imminenti: le piogge non erano previste per altre tre settimane, e il Controllo Monsoni sbagliava al massimo di ventiquattro ore. Quando si spensero anche gli ultimi echi, il Mahanayake rivolse la parola al suo compagno.

— Ecco a cosa servono i nostri cari corridoi di rientro — disse. La sua voce era leggermente irritata, più di quanto non sia concesso a un profeta del Dharma. — Abbiamo dei rilevamenti?

Il monaco più giovane parlò un attimo nel microfono da polso, attese risposta.

— Sì. È arrivato a centoventi. Siamo di cinque decibel al di sopra dei massimi precedenti.

— Inviate la solita protesta alla stazione Kennedy o Gagarin, secondo il caso. Ora che ci ripenso, mandatela a tutte e due. In ogni modo, non farà nessuna differenza.

Mentre il suo occhio seguiva, lungo il cielo, la scia di vapori che si dissolveva lentamente, il Bodhidharma Mahanayake Thero (ottantacinquesimo della dinastia) fu travolto da una fantasia improvvisa, tutt'altro che monacale. Kalidas, senza dubbio, avrebbe saputo come trattare i tecnici delle linee spaziali che ragionavano solo in termini di dollari e di chilogrammi di materiale in orbita… Forse sarebbe ricorso all'impalamento, oppure a elefanti di metallo, oppure all'olio bollente.

Ma la vita era molto più semplice duemila anni addietro.

2

L'ingegnere

 I suoi amici, il cui numero purtroppo diminuiva di anno in anno, lo chiamavano Johan. Il mondo, quando si ricordava di lui, lo chiamava Raja. Il suo nome, per intero, concentrava in sé cinquecento anni di storia: Johan Oliver de Alwis Sri Rajasinghe. Un tempo, i turisti che si recavano alla Montagna gli davano la caccia con cineprese e registratori; ma adesso un'intera generazione non sapeva niente dei giorni in cui lui era il volto più popolare del sistema solare. Non rimpiangeva le glorie del passato, perché gli avevano regalato la gratitudine di tutta l'umanità. Ma gli avevano portato anche rimpianti inutili per gli sbagli commessi e dolore per le vite che aveva sprecato, quando un po' più d'intelligenza, o di pazienza, le avrebbe forse salvate. Ovviamente, adesso era molto facile, in prospettiva storica, capire cosa "si sarebbe dovuto" fare per evitare la Crisi di Auckland, o per riunire i firmatari recalcitranti del Trattato di Samarcanda. Era assurdo rimproverarsi per gli inevitabili errori del passato; eppure, in certi momenti la sua coscienza lo faceva soffrire più delle fitte, ormai debolissime, che gli procurava la vecchia ferita ricevuta in Patagonia.

Nessuno aveva creduto che sarebbe rimasto lontano dalla scena per tanto tempo. — Tornerai fra sei mesi — gli aveva detto il Presidente mondiale Chu. — Il potere dà assuefazione.

— Non a me — aveva risposto lui, sincero.

Perché era stato il potere a cercarlo; lui non l'aveva mai inseguito. E si era sempre trattato di un tipo di potere molto speciale, molto limitato, consultivo e non esecutivo. La sua carica era quella di assistente speciale (facente funzione d'ambasciatore) per gli Affari Politici, responsabile direttamente al Presidente e al Consiglio, e il suo gruppo non era mai stato composto di più di dieci elementi; undici al massimo, contando ARISTOTELE (il suo terminale era ancora collegato ai centri della memoria e dell'elaborazione di Ari, e si parlavano diverse volte l'anno). Ma negli ultimi tempi il Consiglio aveva sempre accettato i suoi suggerimenti, e il mondo aveva regalato a lui quasi tutti gli onori che invece dovevano andare agli sconosciuti, oscuri burocrati della Divisione Pace.