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E così, la fama ricadeva solo sull'ambasciatore a disposizione Rajasinghe che correva da un punto caldo all'altro, e qui rinforzava un ego, là evitava una crisi, manipolando la verità con abilità consumata. Naturalmente non mentiva mai; sarebbe stato fatale. Senza l'infallibile memoria di Ari, non sarebbe mai riuscito a tenere sotto controllo le ragnatele intricate che a volte era costretto a tessere perché l'umanità potesse vivere in pace. E quando quel gioco cominciò a piacergli per quello che era, giunse il momento di ritirarsi.

Era successo vent'anni prima, e lui non aveva mai rimpianto quella decisione. Quelli che avevano predetto che la noia sarebbe riuscita dove le tentazioni del potere avevano fallito non lo conoscevano, oppure non capivano le sue origini. Era tornato ai campi e alle foreste della sua gioventù, e viveva a un solo chilometro dalla grande, immensa montagna che aveva dominato la sua infanzia. La sua villa sorgeva proprio all'interno del grande fossato che circondava i Giardini del Piacere, e le fontane progettate dall'architetto di Kalidas gettavano acqua nel cortile di Johan, dopo un silenzio di duemila anni. L'acqua passava ancora nei canali di pietra originari; non era stato cambiato niente. L'unica differenza era che le cisterne alte sulla montagna venivano alimentate da pompe elettriche, non da squadre di schiavi madidi di sudore.

Poter trascorrere gli ultimi anni in quel luogo ricco di memorie storiche aveva dato a Johan più soddisfazione di tutta la sua carriera. Era la realizzazione di un sogno che non aveva mai sperato si avverasse. Per arrivare a tanto c'era voluta tutta la sua abilità diplomatica, e qualche delicato ricatto all'interno del Dipartimento d'Archeologia. In seguito erano state sollevate interrogazioni davanti al Consiglio di Stato, ma per fortuna nessuno aveva risposto.

Ad eccezione dei turisti e degli studiosi più decisi, il fossato lo isolava dalla curiosità di chiunque, e una fitta muraglia di alberi Ashoka mutati, in fiore tutto l'anno, lo riparava da sguardi indiscreti. Sugli alberi vivevano diverse famiglie di scimmie. Osservarle era divertente, ma di tanto in tanto invadevano la villa e rubavano gli oggetti portatili che colpivano la loro fantasia. Allora si scatenava una veloce guerra inter-specie, a base di petardi e di grida di pericolo registrate che turbavano tanto gli uomini quanto le scimmie; e le scimmie tornavano in fretta, perché da molto tempo avevano imparato che nessuno avrebbe fatto loro del male sul serio.

Uno dei più sfacciati tramonti di Taprobane stava insanguinando il cielo quando il piccolo elettrotriciclo spuntò silenziosamente da dietro gli alberi e si fermò a fianco delle colonne di granito del portico (vere Chola, dell'ultimo periodo di Ranapur; un anacronismo completo in quell'ambiente. Ma solo il professor Sarath le aveva degnate d'un commento, e lui, naturalmente, commentava sempre tutto).

Grazie a lunghe e amare esperienze, Rajasinghe aveva imparato a non fidarsi mai delle prime impressioni, ma anche a non ignorarle mai. In un certo senso si aspettava che Vannevar Morgan, per essere all'altezza di quello che aveva compiuto, fosse un uomo di dimensioni notevoli, imponente. Invece l'ingegnere era di statura inferiore alla media, e a una prima occhiata lo si sarebbe giudicato di corporatura fragile. Però quel corpo magro era tutto nervi, e i capelli neri, corvini, incorniciavano una faccia che sembrava molto più giovane dei suoi cinquantun anni. La foto trasmessa dall'archivio biografico di Ari non gli rendeva giustizia: quell'uomo avrebbe dovuto essere un poeta romantico, o un pianista, oppure, forse, un grande attore, capace di tenere migliaia di persone col fiato sospeso. Rajasinghe riconosceva subito il potere, perché il potere era stato il suo lavoro; e in quel momento si trovava di fronte al potere. Attento agli uomini piccoli, si era detto spesso, perché sono loro che muovono e scuotono il mondo.

E, assieme a quel pensiero, giunse la prima ondata d'apprensione. Quasi ogni settimana, vecchi amici e vecchi nemici giungevano in quell'angolo remoto, per raccontargli le novità e per ricordare assieme il passato. Quelle visite gli facevano piacere, perché davano un senso di continuità alla sua esistenza. Però lui conosceva sempre, con un grado d'accuratezza estremo, lo scopo dell'incontro e il terreno su cui ci si sarebbe mossi. E invece, a quanto gli risultava, lui e Morgan non possedevano interessi in comune, al di là delle affinità che legano gli uomini di una certa epoca. Non si erano mai incontrati, non erano mai entrati in contatto; anzi, quasi non aveva riconosciuto il nome di Morgan. E fatto ancora più insolito, l'ingegnere gli aveva chiesto di non divulgare la notizia del loro incontro.

Rajasinghe lo aveva accontentato, ma con una punta di risentimento. La sua vita pacifica non richiedeva più alcuna segretezza. L'ultima cosa che desiderava era proprio un mistero importante che venisse a sconvolgere la sua esistenza così ordinata. Con la Sicurezza l'aveva fatta finita per sempre; dieci anni prima (o ancora di più?), dietro sua richiesta, le sue guardie personali erano state allontanate. Ma la cosa che lo sconvolgeva di più non era quell'aria di mistero; era la sua assoluta sorpresa. L'ingegnere capo (Divisione Terra) della Terran Construction Corporation non avrebbe percorso migliaia di chilometri solo per chiedergli l'autografo, o per fare le solite osservazioni insignificanti dei turisti. Doveva essere giunto lì con uno scopo preciso; e per quanto si sforzasse, Rajasinghe non riusciva a immaginarlo.

Anche nel periodo di servizio attivo Rajasinghe non aveva mai avuto occasione di entrare in contatto con la TCC. Le tre divisioni di cui era composta, Terra, Mare e Spazio, per quanto enormi, passavano quasi inosservate nel fiume di notizie che scorrevano attraverso la Federazione Mondiale. La TCC emergeva dall'ombra solo quando si verificava un fallimento tecnico di grandi proporzioni, o quando andava a cozzare contro qualche gruppo per la difesa dell'ambiente o del patrimonio storico. L'ultimo di questi scontri si era verificato a causa del Carbondotto Antartico, un miracolo della tecnologia del ventunesimo secolo, costruito per trasportare il carbone fluidificato dai grandi depositi polari alle centrali elettriche e alle fabbriche del mondo intero. Presa da un raptus di euforia ecologica, la TCC aveva proposto di demolire l'ultima parte del carbondotto, l'unica rimasta, e di restituire quel territorio ai pinguini. Subito si erano levate le grida di protesta degli archeologi industriali, oltraggiati da tanto vandalismo, e dei naturalisti, i quali fecero notare che i pinguini "adoravano" il carbondotto abbandonato. Lì dentro vivevano splendidamente, come mai in passato, tanto che si era verificato un'esplosione demografica di pinguini che nemmeno le balene assassine riuscivano a contenere. La TCC si era arresa senza opporre resistenza.

Rajasinghe non sapeva se Morgan avesse avuto una parte in quella piccola débàcle. Comunque la cosa importava ben poco, visto che adesso il suo nome era legato al trionfo più recente della TCC…

Lo avevano battezzato il Ponte dei Ponti, e forse non a torto. Rajasinghe, come metà della popolazione mondiale, aveva ammirato lo spettacolo dell'ultimo tratto di ponte che veniva dolcemente sollevato in cielo dal "Graf Zeppelin", un'altra meraviglia del secolo. I lussuosi arredi dell'aeronave erano stati tolti per alleggerirla; la famosa piscina era stata svuotata e i reattori pompavano il calore in eccesso nei palloni, aumentando la spinta ascensionale. Era la prima volta che un peso di oltre mille tonnellate veniva sollevato a tre chilometri d'altezza, e tutto (fra la rabbia di milioni di spettatori, senza dubbio) era andato alla perfezione.

Nessuna nave avrebbe mai più oltrepassato le Colonne d'Ercole senza rendere omaggio al ponte più colossale che l'uomo avesse mai costruito; o che, con ogni probabilità, avrebbe mai costruito. I due pilastri al punto d'incontro fra il Mediterraneo e l'Atlantico erano le strutture più alte del pianeta, e stavano l'una di fronte all'altra, separate da quindici chilometri di spazio vuoto su cui si tendeva l'incredibile, delicato arco del Ponte di Gibilterra. Era un onore conoscere l'uomo che lo aveva concepito, anche se arrivava con un'ora di ritardo.