Ci fu un lungo silenzio, un silenzio di ghiaccio che stringeva il cuore. Quindi George disse, in tono pacato: «È tutto qui?»
«Sì. Ho cominciato a sentirmi solo e sperduto, e allora la mamma è venuta a svegliarmi.»
George diede una tiratina affettuosa ai capelli scarmigliati del figlio, mentre si stringeva la cintura della veste da camera con l’altra mano. Si sentì a un tratto infreddolito, debole e inetto. Ma non c’era nessuna traccia di questo nella sua voce, quando disse a Jeff: «Non è che un sogno senza senso. Hai mangiato troppo a cena. Ora non ci pensare più e cerca di dormire, sii bravo.»
«Sì, papà» rispose Jeff. Rimase in silenzio per un istante e poi aggiunse, in tono pensoso: «Forse cercherò di tornarci, in quello strano posto.»
«Un sole azzurro?» disse Karellen qualche ora più tardi. «Questo deve avere facilitato inoltre l’identificazione.»
«Sì» rispose Rashaverak. «Si tratta senza possibilità di dubbio di Alphanidon Due. Le Montagne Sulfuree confermano il fatto. Ed è interessante notare la distorsione della scala temporale. Il pianeta ruota sul proprio asse con notevole lentezza, per cui egli deve avere osservato un tratto di parecchie ore in qualche minuto.»
«È tutto quanto siete in grado di scoprire?»
«Sì, senza interrogare direttamente il bambino.»
«Non possiamo osare tanto. Gli eventi devono seguire il loro corso naturale senza interferenze da parte nostra. Quando i suoi genitori verranno in contatto con noi… allora forse potremo interrogarlo.»
«Possono anche non venire mai in contatto con noi. O farlo quando sarà troppo tardi.»
«Temo che a questo non si possa rimediare. Non dobbiamo mai dimenticarlo: in queste cose la nostra curiosità non ha nessuna importanza. Non è più importante nemmeno della felicità del genere umano.»
Alzò la mano per togliere la comunicazione.
«Continuate la vostra sorveglianza, naturalmente, e riferitemi ogni risultato degno di nota. Ma ricordatevi di non interferire in nessun modo!»
Eppure, da sveglio Jeff sembrava lo stesso identico ragazzetto di sempre: cosa di cui almeno, pensò George, c’era da essere grati. Ma la paura ingigantiva sempre più nel suo cuore. Per Jeff non era che un gioco: non aveva ancora nemmeno cominciato a spaventarlo. Un sogno era semplicemente un sogno, per strano che fosse. E non si sentiva più troppo solo e sperduto nei mondi che il sonno gli dischiudeva. Era stato soltanto quella prima volta, quando la sua mente aveva invocato l’aiuto di Jean varcando chi sa quali abissi misteriosi, insondabili. Ora aveva imparato ad andare solo e senza timore nell’universo che gli spalancava le porte.
La mattina poi gli facevano un sacco di domande, e lui raccontava tutto quello che poteva ricordare. Talvolta le parole si accavallavano o gli mancavano, quando tentava di descrivere scene che non solo erano al di là di ogni sua esperienza, ma al di là della stessa immaginazione umana. Padre e madre gli venivano in aiuto suggerendogli parole nuove, mostrandogli fotografie a colori per stimolare la sua memoria e poi cercando loro di descrivere la scena, disegnandola in base alle sue risposte. Spesso non riuscivano però a capire niente dal risultato dei loro sforzi, per quanto sembrasse che nella mente di Jeff i mondi del suo sogno fossero ben chiari e definiti. Lui infatti sapeva benissimo com’erano, ma non riusciva a descriverli ai genitori. Eppure alcuni di quei mondi sarebbero dovuti essere comprensibili…
Lo spazio soltanto, nessun pianeta, nessun paesaggio circostante, nessun mondo sotto i piedi; ma le stelle soltanto, nella notte di velluto, e sospeso sullo sfondo delle stelle un enorme sole rosso, pulsante come un cuore. Immenso e rarefatto un istante, si raggrinziva lentamente, già più fulgido, come se nuovo combustibile fosse stato gettato nelle fornaci del suo interno. Risaliva la scala dello spettro fino a sfiorare i margini del giallo, e poi il ciclo ricominciava nel senso opposto, la stella si dilatava e si raffreddava, divenendo ancora una volta una nebulosità dai contorni frastagliati, rosso fiamma.
(«Tipica pulsante variabile» disse Rashaverak con interesse. «Vista inoltre sotto un’enorme accelerazione temporale. Non posso identificarla con certezza, ma la stella più vicina che corrisponda alla descrizione è Rhamsanidon Nove. A meno che non sia Pharanidon Dodici.»
«Qualunque sia la stella» rispose Karellen «il ragazzo si allontana sempre più dal suo mondo.»
«Sempre di più» disse Rashaverak…).
Sarebbe potuta essere la Terra. Un sole bianco spiccava nel cielo azzurro chiazzato di nubi che fuggivano spinte da un temporale. Un’altura digradava dolcemente verso un oceano reso schiumeggiante dal vento rabbioso. Ma tutto era immobile: la scena era come pietrificata, quasi che fosse colta dall’occhio nell’attimo di luce abbagliante di un fulmine. E lontano, molto lontano sull’orizzonte, c’era qualcosa che non apparteneva alla Terra, una fila di colonne di fumo che si assottigliavano a mano a mano che, uscite dall’acqua, salivano incontro alle nubi. Quelle colonne erano perfettamente equidistanti tra loro lungo tutto il perimetro di quel pianeta che era troppo grande per essere un mondo artificiale, eppure troppo regolare per essere naturale.
(«Sidenens Quattro e i Pilastri dell’Alba» disse Rashaverak, e c’era un tono di timore riverenziale nella sua voce. «Ha raggiunto il centro dell’universo.»
«E ha appena cominciato il suo viaggio» rispose Karellen).
Il pianeta era assolutamente piatto. La sua enorme forza di attrazione gravitazionale aveva già da gran tempo schiacciato a un livello uniforme le montagne della sua gioventù aggressiva. Era un mondo a due dimensioni, popolato da esseri che non potevano avere uno spessore maggiore d’una frazione di centimetro. Eppure c’era vita su di esso perché la sua superficie era percorsa da una miriade di disegni geometrici che si muovevano e mutavano colore. E nel cielo splendeva un sole quale soltanto un fumatore di oppio avrebbe potuto immaginare in una delle sue allucinazioni più sfrenate. Troppo caldo per essere bianco, era un fantasma lancinante, che ai confini dell’ultravioletto bruciava i suoi pianeti con radiazioni letali per ogni forma di vita. Era una stella a paragone della quale il pallido sole della Terra sarebbe stato così fioco come una lucciola nella gran luce del mezzogiorno. («Hexanerax Due, la sola stella di quel tipo in tutto l’universo conosciuto» disse Rashaverak. «Soltanto una piccola squadra delle nostre navi è potuta giungervi: e non si sono tentati atterraggi perché nessuno avrebbe potuto immaginare che la vita potesse esistere su pianeti simili.»
«A quanto pare» osservò Karellen «voi scienziati non siete poi stati così scrupolosi come avevate creduto. Se quelle figure… quei disegni, potremmo dire, sono intelligenti, il problema di come entrare in comunicazione sarà molto interessante. Mi domando se abbiano il più lieve sentore della terza dimensione…»).
Era un mondo che non avrebbe mai potuto avere il concetto della notte e del giorno, degli anni e delle stagioni. Sei soli variopinti si dividevano il suo cielo, così che c’era soltanto un mutamento di luce. Le tenebre non calavano mai. Tra i sussulti e gli strattoni dei campi gravitazionali contrastanti, il pianeta percorreva le curve e gli anelli annodati dalla sua orbita incredibilmente complessa, senza mai passare per lo stesso punto. Ogni momento era unico: la configurazione che in quell’istante i sei soli tracciavano nel cielo non si sarebbe più ripetuta per tutta l’eternità. E anche lì c’era vita: che importava se ai cristalli sfaccettati e raggruppati in complicate forme geometriche occorreva un millennio per completare un pensiero?
L’universo era giovane, e il tempo senza fine.
(«Ho ripassato tutti i dati in nostro possesso» disse Rashaverak. «Non abbiamo notizia né di un mondo simile né di un simile combinazione di soli. Se esistesse in seno al nostro universo, gli astronomi lo avrebbero scoperto, anche se si trovasse al di là del raggio di azione delle nostre astronavi.»