Jean non aveva più paura, non era nemmeno triste. Era giunta finalmente, attraverso la tempesta, ad acque calme, e l’emozione non aveva ormai più presa alcuna su di lei. Ma restava una cosa da fare e lei sapeva che c’era appena tempo. Sempre in silenzio, George la seguì per la casa in cui regnava una pace solenne. Attraversarono il fascio di luce lunare che pioveva dal lucernario dello studio, movendosi lentamente insieme con le loro ombre, ed entrarono nella camera che era appartenuta ai loro cari bambini. Non era cambiato niente. Alle pareti luccicavano ancora i quadri fluorescenti che George aveva dipinto con tanta cura. E il sonaglio, che era appartenuto a Jennifer, stava ancora sul pavimento dove lei lo aveva lasciato cadere quando la sua mente si era rivolta alle inconoscibili lontananze dove viveva adesso. Lei, s’è lasciata dietro i suoi balocchi, pensò George, ma i nostri camminano con noi. Pensò ai bambini dei Faraoni, che cinquemila anni prima venivano sepolti con le loro bambole e i loro monili. Sarebbe stato ancora così. Nessun altro dovrà amare i nostri tesori, si disse, noi ce li porteremo via e non ci separeremo mai da loro.
Lentamente Jean si voltò verso di lui e gli posò la testa su una spalla. Lui la strinse fra le braccia, forte, e l’amore di un tempo tornò a colmarlo, attutito dalla distanza ma limpido, come un’eco rimandata da una lontana catena di montagne. Era troppo tardi, adesso, per dirle tutto quello che sarebbe stato giusto dirle, e George provò più rimorso per la sua passata indifferenza che per i suoi tradimenti. E Jean disse con voce tranquilla: «Addio, caro» e accentuò la stretta delle sue braccia. Non ci fu tempo per la risposta di George, ma anche in quell’istante supremo lui ebbe una sensazione fuggevole di stupore nell’accorgersi che Jean sapeva che il grande momento era giunto. E l’isola salì incontro all’aurora.
21
L’astronave dei Superni arrivò scivolando lungo la sua strada, luminosa come il percorso di una meteora, attraverso la costellazione di Carena. Tra i pianeti esterni del sistema era cominciata la tremenda decelerazione, ciononostante, all’altezza di Marte la sua velocità era ancora vicina a quella della luce. Lentamente gli immensi campi di forza del Sole assorbirono il suo «momentum» mentre ancora le energie della superpropulsione segnavano il cielo con una scia infuocata lunga milioni di chilometri. Jan Rodricks tornava, di sei mesi più vecchio, al mondo che aveva lasciato ottanta anni prima. Questa volta non era più un passeggero clandestino in un nascondiglio segreto, ma se ne stava dietro i tre piloti (perché poi, si chiedeva, ne occorrevano tanti?), a guardare le configurazioni che si formavano e disfacevano sul grande schermo che dominava la sala comando.
I colori e le forme che comparivano sullo schermo non significavano niente per lui, ma Jan immaginò che indicassero i dati che su una nave costruita dagli uomini sarebbero comparsi sotto forma di numeri. Ogni tanto però sullo schermo si vedevano grappoli di stelle, e Jan sperò di vedere presto inquadrata la Terra.
Era contento di tornare nel suo mondo, nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per fuggirne. In quei pochi mesi, era maturato. Aveva visto tanto, viaggiato in regioni così lontane dell’universo che ora si consumava dal desiderio del suo mondo. Capiva perché i Superni avessero escluso la Ter-ra dalle stelle. L’umanità aveva ancora molta strada da percorrere prima di avere la minima parte nella civiltà che lui aveva ora appena intravisto. Che proprio si dovesse pensare, e l’idea gli ripugnava profondamente, che il genere umano non sarebbe mai potuto essere niente di più d’una specie inferiore, tenuta in uno zoo appartato coi Superni come guardiani? Era questo, forse, che Vindarten aveva voluto dire quando, proprio al momento della sua partenza, aveva dato a Jan questo ambiguo avvertimento: «Molte cose possono essere successe sul vostro pianeta durante il tempo trascorso. Potreste non riconoscere il vostro mondo, quando lo rivedrete.»
Può darsi, pensò Jan. Ottant’anni erano molti, e per quanto lui fosse ancora giovane, con la mente agile, e possedesse una grande capacità di adattamento, poteva trovare difficoltà a comprendere tutti i cambiamenti che dovevano essersi verificati. Ma di una cosa era sicuro: gli uomini avrebbero voluto sentire la sua storia e sapere che cosa aveva visto della civiltà dei Superni.
Lo avevano trattato bene, come del resto si era aspettato. Del viaggio verso Carena non aveva saputo niente: quando l’effetto dell’iniezione si era dissipato gradualmente e lui era tornato alla realtà, l’astronave era già entrata nel sistema dei Superni. Lui era strisciato fuori dal suo nascondiglio e si era accorto che la maschera dell’ossigeno non gli serviva. L’aria era densa e pesante, ma Jan poteva respirare senza difficoltà. Si era ritrovato entro la stiva enorme dell’astronave illuminata in rosso, fra innumerevoli casse e tutte le comuni parti di un carico che è logico aspettarsi di trovare a bordo di qualsiasi grossa nave mercantile degli spazi cosmici o del mare. Gli ci era voluta quasi un’ora per trovare la strada della sala di comando e rendere nota la sua presenza all’equipaggio. La loro mancanza di sorpresa lo aveva lasciato perplesso. Sapeva che i Superni dimostravano pochissimo i loro sentimenti, ma una reazione qualunque se l’era aspettata. Invece avevano continuato a fare quello che stavano facendo, osservando il grande schermo, costantemente solleciti alle innumerevoli manopole dei pannelli di comando. Ed era stato allora che aveva capito che si preparavano ad atterrare, perché, ogni tanto, l’immagine di un pianeta appariva in un lampo sullo schermo, più grande a ogni comparsa. Eppure non si avvertiva nessuna sensazione di movimento o cambiamento di velocità, e la gravità rimaneva assolutamente costante: un quinto circa di quella terrestre, aveva calcolato Jan. Le immense forze che muovevano l’astronave erano compensate con precisione ammirevole. E infine, all’unisono, i tre Superni si erano alzati dai loro sedili, e lui a-veva capito che il viaggio spaziale era concluso. Essi non avevano parlato né al passeggero né tra loro, e quando uno dei Superni gli aveva fatto cenno di seguirlo, Jan aveva capito che a quel capo della lunghissima linea che riforniva Karellen, non c’era nessuno che parlasse inglese. Essi lo avevano guardato con gravità mentre le porte enormi si aprivano davanti ai suoi occhi avidi. Quello era il momento supremo della sua vita: era il primo essere umano che vedeva un mondo illuminato da un altro sole. La luce vermiglia di NGS 549672 invase l’astronave, e davanti a lui apparve il mondo dei Superni. Che cosa si era aspettato? In realtà Jan non lo sapeva. Edifici immensi, metropoli con torri che si perdevano nelle nubi, macchine che superavano ogni immaginazione… tutto questo non l’avrebbe stupito. Invece vide una pianura anonima che si stendeva fino all’orizzonte incredibilmente e innaturalmente vicino, interrotta soltanto da altre tre astronavi immobili a qualche chilometro di distanza. Per un attimo Jan si sentì deluso, poi scosse le spalle rendendosi conto che in fondo avrebbe dovuto immaginare che uno spazioporto si trovasse in una zona deserta proprio come quella.
Faceva freddo, per quanto in modo sopportabile. La luce dell’enorme sole rosso basso sull’orizzonte non era un pericolo per gli occhi umani, ed era sufficiente a vedere, ma Jan si chiese fra quanto tempo avrebbe cominciato a desiderare i toni verdi e azzurri. Poi vide il gigantesco calice che saliva nel cielo simile a un immenso catino messo vicino al sole. Lo guardò a lungo prima di capire che il suo viaggio non era ancora finito. Era quello il mondo dei Superni. Questo dove si trovava doveva essere il suo satellite, la base dalla quale partivano le loro astronavi.