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Vorrei poter credere altrimenti. Ma oggi, sopra ogni altra cosa, vorrei passare di nuovo un’altra ora con Wolfgang.

«Mi hanno detto, Eraclito, mi hanno detto che eri morto. Mi hanno portato notizie amare da ascoltare e lacrime ancora più amare da spargere. Ho pianto nel ricordare quanto spesso, tu ed io, abbiamo stancato il sole parlando, cacciandolo giù dal cielo.
Ma adesso che tu giaci, mio caro vecchio ospite cariota, una manciata di ceneri grige che da molto, molto tempo riposano, ancora sono sveglie le tue voci piacevoli, i tuoi usignoli. Poiché la morte tutto si porta via; ma questi non può prenderli.»

PARTE I 2010 d. C.

CAPITOLO PRIMO

La Strada per Armageddon

La neve stava scendendo in piccoli fiocchi. La sua caduta, lenta e costante, aveva aggiunto quasi quattro pollici di nuovi cristalli alla superficie gelata. Due piedi più sotto, con il tronco arrotolato e il naso nascosto nella spessa pellicia, la grande orsa giaceva immobile. Pareti di ghiaccio traslucido formavano grotte intorno alla pelliccia bruno-chiara.

La voce arrivava attraverso la caverna come un filo di suono disincarnato. — Il livello del sodio sta scendendo ancora. Pare proprio brutta, Gesù Cristo. Prova ancora un ciclo.

Alla periferia della caverna un tremolio di luce colorata cominciò ad ammiccare. Le pareti brillarono rosse, azzurro chiaro, e infine sfavillarono di un verde abbagliante. Una punteggiatura di colori puri tracciò un disegno increspato sulle palpebre chiuse della bestia.

L’orsa dormiva sul ciglio della morte. La temperatura del suo corpo rimaneva costante, dieci gradi al di sopra del punto di congelamento. Quell’enorme cuore pompava a due pigri battiti al minuto, l’indice metabolico era sceso di un fattore di cinquanta. Il respiro si stava indebolendo in modo costante, tradito adesso soltanto dal sottile strato di cristalli di ghiaccio della frangia della barba bianca e intorno al muso arrotondato.

— Non va bene. — Nella voce echeggiò un’ulteriore nota d’urgenza. — Scende ancora, e stiamo perdendo la traccia delle pulsazioni. Dobbiamo rischiare. Dalle una scossa più forte.

Il disegno della luce si alterò. Vi fu una stilettata di magenta, un rapido ammiccare di zaffiro e turchino, poi una spruzzata di punti color zafferano e rubino sulle pareti ghiacciate. A mano a mano che l’arcobaleno veniva modulato, l’orsa cominciò a reagire al segnale. Gli occhi color ardesia tremolarono nella lunga testa liscia. L’enorme torace fremette.

— È il massimo che oso tentare. — La seconda voce era più profonda. — Cominciamo ad avere una maggior fibrillazione cardiaca.

— Mantieniti a questo livello. E tieni d’occhio la temperatura rettale. Perché mai sta succedendo proprio adesso? — La voce echeggiò angosciata attraverso la caverna dalle spesse pareti.

La cavità in cui l’orsa giaceva era larga quindici metri. Attraverso la parete esterna correva una ragnatela di fibre ottiche. Passava sotto il ghiaccio arrivando fino a una scatola tozza vicino al corpo della bestia. Deboli segnali elettronici giungevano da aghi piantati in profondità nella pelle coriacea dell’animale, dove i sensori controllavano le decrescenti correnti vitali del grande corpo. La conduttività della pelle, il battito del grande cuore, la pressione sanguigna, la temperatura, gli equilibri chimici, la concentrazione ionica, i movimenti degli occhi e le onde cerebrali venivano continuamente controllati. Codificati e amplificati nella scatola quadrata, i segnali passavano come impulsi di luce lungo le fibre ottiche fino a un pannello sistemato all’esterno della parete.

La donna china sopra il pannello fuori della cavità aveva all’incirca trent’anni. I suoi capelli scuri erano tagliati corti sopra una fronte alta e liscia che adesso si stava corrugando mentre studiava i monitor. Stava osservando un read-out digitale che vibrava rapido scandendo una sequenza ripetuta di valori. Era scalza e le dita dei piedi si agitavano nervosamente a mano a mano che i valori del read-out digitale si muovevano più in fretta.

— Non va. Sta ancora peggiorando. Non possiamo invertirlo?

L’uomo accanto a lei scosse la testa. — No, senza ucciderla più in fretta. La sua temperatura è scesa fin troppo, e la sua attività cerebrale è al di sotto del nostro controllo. Temo che la perderemo. — La sua voce era calma e lenta, rigidamente controllata. Si girò e fissò la donna, in attesa d’istruzioni.

Lei tirò un respiro lungo e fremente. — Non dobbiamo perderla. Dev’esserci qualcos’altro che possiamo fare. Oh, mio Dio. — Si alzò in piedi, rivelando una corporatura agile e flessuosa che accentuava la sottigliezza delle sue spalle curve. — Jinx potrebbe trovarsi nella stessa situazione. Hai controllato il suo recinto per vedere come se la sta cavando?

Wolfgang Gibbs sbuffò. — Dammi credito per qualcosa, Charlene. L’ho controllato pochi minuti fa. Là tutto è stabile. L’ho tenuto in ritardo di quattro ore rispetto alla nostra Dolly, qui, perché non sapevo se questa mossa fosse sicura. — Scrollò le spalle. — Adesso lo sappiamo, immagino. Guarda l’elettroencefalogramma di Dolly. Farai meglio ad accettarlo, donna-capo. Non c’è una sola cosa che possiamo fare per lei.

Sullo schermo davanti a loro lo schema dei segnali elettrici provenienti dal cervello dell’orsa cominciava ad appiattirsi. Ogni traccia di fusi era scomparsa e l’ampiezza delle sinusoidi residue stava calando.

La donna ebbe un brivido, poi sospirò. — Dannazione, dannazione, dannazione. — Si passò le mani attraverso i capelli scuri. — E adesso cosa si fa? Non posso restare ancora per molto, la riunione con Judith Niles comincia fra meno di mezz’ora. Cosa diavolo le dirò? Aveva riposto tante speranze in questa…

Si raddrizzò sotto lo sguardo diretto dell’altro. C’era sempre un elemento indagatore nella sua espressione che la faceva sentire a disagio.

Lui scrollò un’altra volta le spalle e se ne uscì in un’aspra risata. — Dille che non abbiamo mai promesso miracoli. — Nella sua voce le vocali avevano una risonanza asciutta, a indicare nel suo inglese una lingua appresa tardi. — Gli orsi non vanno in ibernazione alla maniera degli altri animali. Perfino JN lo ammetterebbe. Dormono molto e la temperatura del corpo scende, ma è un processo metabolico diverso. — Dalla consolle arrivò un bip. — Attenta, adesso. Se ne sta andando.

Sullo schermo davanti a loro la traccia dell’attività cerebrale era ridotta a un’unica linea orizzontale. Osservarono in silenzio per un intero minuto, fino a quando non ci fu un ultimo, debole fremito del sensore del cuore.

L’uomo si sporse in avanti e girò al massimo l’amplificatore. Grugnì. — Niente. Se n’è andata. Povera vecchia Dolly.

— E cosa dirò io a JN?

— La verità. Ne conosce già la maggior parte. Con Jinx e Dolly siamo andati più in là di quanto JN avesse qualche ragione, anche minima, di sperare. Te l’avevo detto che gli orsi erano un campo rischioso, ma abbiamo continuato a insistere.

— Speravo di riuscire a tener sotto Jinx per altri quattro giorni almeno. Adesso non possiamo rischiare. Dovrò dire a JN che lo sveglieremo subito.