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— La Genesi. Ti ricordi la Genesi? — La voce di Salter Wherry si stava spegnendo, diventando sempre più indistinta. — Noi dobbiamo fare quello che dice la Genesi… Siate fecondi e moltiplicatevi.

Wolfgang lanciò una rapida occhiata alla dottoressa. — Sta farneticando.

— Non sto farneticando. — C’era ancora una debole punta d’irritabilità in quella voce fioca. — Ascolta. Ho costruito le arcologie perché facessero molta strada, inseminando l’universo. Siate fecondi e moltiplicatevi. Capito? Autosufficienti… possono andare avanti per migliaia di anni, diecimila anni. Ma noi… non possiamo farlo. Noi siamo l’anello debole. Combattiamo, cambiamo idea, cambiamo società, uccidiamo i capi, distruggiamo i sistemi. Maledetti stolti. Non dureremo mai mille anni… neppure cento.

Avevano raggiunto il Centro Medico, e Wherry venne sollevato su un tavolo dove tutto era stato predisposto per le operazioni di emergenza. Un ago gli stava già scivolando dentro il braccio sinistro, mentre una batteria di vivide luci si stava accendendo tutt’intorno a loro.

Wherry ruotò la testa facendo un ultimo sforzo per guardare Wolfgang. — Di’ a Judith Niles… voglio che sviluppi l’animazione sospesa. È per questo che avevo bisogno dell’Istituto quassù nella Stazione. — La maschera a ossigeno era stata tolta, e su quel volto torturato c’era la parodia d’un sorriso. — Un tempo pensavo di poter essere io il primo esperimento. Ho visto le stelle io stesso… ma non toccherà a me giungere così lontano. Dille: sono freddo, la fine di ogni cosa… sonno…

La dottoressa Ferranti era al fianco di Wolfgang. — È sotto anestesia — gli disse. — Vogliamo che lei esca di qui. Opereremo subito.

— Potete salvarlo?

— Non credo. Questo è il terzo attacco. — Si morse il labbro. Per la prima volta Wolfgang notò i suoi grandi occhi luminosi e la bocca dalla piega triste. — L’ultima volta è stato un lavoro di rattoppo, ma speravamo che durasse più a lungo di così. Una probabilità su dieci, non di più. Meno, se non cominciamo subito.

Wolfgang annuì. — Buona fortuna.

Ripercorse a lenti passi i corridoi. Erano deserti. Tutti quelli presenti nella stazione si erano ritirati con i propri pensieri. Wolfgang, di solito insensibile alla fatica, si sentiva svuotato, sconfitto. Le esplosioni sulla Terra riemersero nella sua mente senza che lui le avesse evocate, un collage di distruzione con il volto triste di Jan de Vries sovrapposto ad essa. L’ottimismo di quella mattina, e le battute scherzose durante l’inventario delle scorte con Charlene gli parevano lontani molte settimane.

Finalmente arrivò nella sala di controllo. C’era soltanto Hans, intento a guardare le proiezioni. Pareva in trance da shock, ma si animò alla voce di Wolfgang.

— Il sistema di difesa missilistico è stato disattivato. Laggiù erano troppo occupati a farsi fuori tra loro per sprecare il loro tempo per noi. Le tue navi cominceranno ad attraccare da un momento all’altro.

— Qual è la situazione… — Wolfgang indicò con un cenno del capo lo schermo dove la grande proiezione mostrava la faccia a chiazze color ocra della Terra.

— Orrenda. Non arrivano segnali, né radio né televisivi, o, se ci stanno provando, si smarriscono nella statica. Appena qualche minuto fa abbiamo tentato di valutare la quantità di energia liberata. Trentamila megatoni. — Hans sospirò. — Quattro tonnellate di TNT per ogni singolo individuo sul pianeta. Adesso c’è la notte su tutta la superficie della Terra. La luce del sole non può penetrare le nubi di polvere.

— Quante perdite?

— Due miliardi? Tre miliardi? — Hans scosse la testa. — Non è ancora finita. I mutamenti del clima elimineranno quelli rimasti.

— Tutti? Tutti gli abitanti della Terra?

Hans non rispose. Rimase seduto rannicchiato alla consolle, con lo sguardo fisso sullo schermo. Tutta la superficie del pianeta era una singola macchia scura. Dopo qualche minuto Wolfgang proseguì, tornando al proprio alloggio. Hans e gli altri avevano ragione. Ben presto le navi avrebbero attraccato, ma prima di questo c’era bisogno di solitudine e silenzioso dolore.

Charlene lo stava aspettando nella stanza al buio. Entrò e la prese tra le braccia. Per parecchi minuti rimasero seduti in silenzio, stringendosi l’un l’altro. La velocità degli eventi era stata tale per molte ore che erano rimasti storditi e soltanto adesso il loro orrendo significato aveva cominciato a diventare comprensibile. Per Charlene, in particolare, che aveva lasciato la Terra e l’Istituto Neurologico da appena ventiquattr’ore, ogni cosa dava una sensazione d’irrealtà. Sentiva che ben presto l’incanto sarebbe stato rotto e sarebbe tornata al familiare e confortevole mondo degli esperimenti, dei rapporti di aggiornamento, e degli incontri settimanali dello staff.

Wolfgang si mosse fra le sue braccia. Lei gli sollevò la mano e gliela sfregò contro la guancia.

— Quali sono le notizie su JN? — chiese lui alla fine. — Non mi è piaciuta l’espressione di de Vries.

Charlene rabbrividì nel buio. — Peggio non potrebbe essere. Jan si è incontrato con lei questa mattina, quando ha ricevuto dal laboratorio gli ultimi risultati dei test. Ha un tumore al cervello, maligno e in rapido sviluppo. Ancora peggio di quanto temessimo.

— Non si può operare?

— Questa è la parte peggiore… è quanto chiedeva Jan de Vries. Esistono un’operazione e un programma associato di chemioterapia, che hanno avuto successo in quattro casi su cinque. Ma i posti e le persone in grado di eseguirla si contano sulle dita di una mano. Non c’è nessun modo di farlo sulla Stazione Salter, hai sentito cos’ha detto la dottoressa Ferranti, ci vorrebbero cinque anni per mettere a punto le attrezzature necessarie.

— Quanto tempo le rimane?

— Due o tre mesi, non di più. — Charlene aveva trattenuto i propri sentimenti per tutta la giornata, ma adesso piangeva in silenzio. — Forse meno, l’accelerazione al momento del lancio le ha fatto perdere i sensi, e questo è un brutto segno. Erano soltanto tre G. E tutti i servizi medici sulla Terra che avrebbero potuto effettuare l’operazione, sono polvere. Wolfgang, è condannata. Qui non possiamo operarla e lei non può tornare laggiù.

Lui rimase nuovamente in silenzio per un po’, facendo dondolare gentilmente Charlene avanti e indietro fra le sue braccia. — Questa mattina sembravamo all’inizio di ogni cosa — disse. — Dodici ore più tardi… è la fine. Wherry l’ha detto: la fine di ogni cosa. Non te l’ho detto, ma sta morendo anche lui. Ne sono sicuro. Mi ha dato un messaggio per JN, perché si mettesse a lavorare sul sonno freddo per le arcologie. Gli ho promesso che l’avrei comunicato a Judith, e lo farò. Ma adesso non ha più nessuna importanza.

— Se ne sono andati tutti — disse Charlene con voce sommessa. — La Terra, Judith Niles, Salter Wherry. Cosa rimane?

Wolfgang rimase silenzioso per parecchi istanti. Nel buio, sentendo il corpo di lui caldo contro il proprio, Charlene si chiese se lui l’avesse davvero sentita. Cominciavano entrambi ad assopirsi, a mano a mano che l’esaurimento nervoso li drenava d’ogni energia residua. Si sentì troppo debole per muoversi.

Alla fine Wolfgang grugnì e si mosse. Esalò un lungo, fremente, sospiro.

— Rimaniamo noi — disse. — Siamo ancora qui. E ci sono gli animali. Qualcuno deve occuparsi di loro. Non possiamo lasciare che muoiano di fame.

Appoggiò di nuovu la testa sulla spalla di Charlene. — Rimaniamo qui, cerchiamo di dormire un po’. Poi potremo andare a dar da mangiare al vecchio Jinx.

Le sue parole suonarono rotte e indistinte, mentre sprofondavano nel sonno. — Qualcosa deve andare avanti… perfino dopo la fine del mondo.

CAPITOLO UNDICESIMO

Per quasi quattro ore non c’era stato nessuno scambio di parole. Ognuna delle tre figure abbigliate di bianco era assorta nei suoi particolari doveri, e le maschere di garza imponevano per giunta isolamento e anonimità. L’aria nella camera era fredda da gelare. Gli operatori si sfregavano le mani ghiacciate, ma erano riluttanti a indossare guanti termici rischiando una diminuzione dell’abilità nell’uso delle dita.