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La donna sul tavolo era rimasta inconscia per tutto il tempo, li suo respiro era talmente debole che era necessario la rassicurante indicazione del monitor a indicare la sua sopravvivenza e la sua condizione stabile. Elettrodi e cateteri le entravano nell’addome, nella cavità del torace, ne! naso, negli occhi, nella colonna vertebrale e nel cranio. Uno spesso tubo era stato collegato a un’importante arteria nell’inguine, pronto a pompare sangue al congegno di scambio chimico sistemato sui tavolo.

Tutto era pronto. Ma aleggiava l’esitazione. I tre controllarono un’ultima volta i segni vitali, poi per tacito accordo uscirono dalla stanza e si tolsero le maschere. Per qualche istante si guardarono in silenzio.

— Dobbiamo davvero farlo? — chiese Charlene a un tratto. — Voglio dire, con tutte le incertezze e i rischi… noi non abbiamo nessuna esperienza con un essere umano. Zero. E non sono sicura di come dovrebbero venir modificate le diverse dosi di droga per adattarle ad una massa ed a una chimica corporea diverse…

— Quale altra azione suggeriresti, mia cara? — Jan de Vries era stato quello che si era opposto in maniera più veemente all’idea, quando gli era stata proposta la prima volta, ma adesso pareva molto calmo e rassegnato. — Riportare la sua temperatura corporea alla normalità? Cercare di svegliarla? Se questo è il tuo suggerimento, proponicelo. Ma devi essere tu quella, non io, che l’affronterà e le spiegherà perché non abbiamo acconsentito ad esaudire i suoi espliciti desideri.

— Ma se non dovesse funzionare? — La voce di Charlene tremava. — Guarda la nostra documentazione. È talmente rischioso… Abbiamo tenuto Jinx in quella condizione per tre settimane soltanto. Ed è tutto.

— E tu vuoi dirci, così, che la tua esperienza con l’orso non è utilizzabile?

— Chi lo sa? Potrebbero esserci cento differenze significative: la massa corporea, antigeni preesistenti, reazioni alle droghe. E anche altre cose assai più improbabili di queste. Per tutto quello che ne sappiamo, potrebbe funzionare con Jinx a causa di alcuni farmaci che abbiamo usato in precedenza durante gli esperimenti che abbiamo fatto su di lui. Ricordi quando abbiamo usato la stessa procedura con Dolly? L’ha uccisa. Dobbiamo tentare altri test, con altri animali… abbiamo bisogno di più tempo.

— Questo lo sappiamo tutti. — Wolfgang Gibbs non condivideva la calma fatalistica di de Vries, o il nervoso tentennare di Charlene. Pareva avere un interesse oggettivo nel nuovo esperimento. — Considera la cosa in questo modo, Charlene. Se potremo portare JN nel Modo Due durante le prossime ore, vi sono due possibilità. Se rimarrà stabile e riprenderà conoscenza, tutto è a posto. Cercheremo di comunicare con lei per scoprire come si sente. Se la porteremo nel Modo Due e non sarà stabile, potremo cercare di riportarla alle condizioni normali. Se ci riusciremo, avremo la possibilità di tentare di nuovo. Se falliremo, morirà. È questo che ti preoccupa. Ma se non tentiamo di stabilizzarla nel Modo Due, morirà comunque, ricordati della diagnosi. Se ne andrà in meno di tre mesi, e questo non possiamo cambiarlo. Poniti la domanda in questi termini: se ci fossi tu su quel tavolo, cosa vorresti che facessimo?

Charlene si morse il labbro. C’era la terribile tentazione di non fare niente, di lasciare JN con una temperatura corporea vicina al punto di congelamento, mentre loro deliberavano. Ma la temperatura della camera stava ancora scendendo. Nel giro della prossima mezz’ora dovevano far riprendere i sensi a Judith Niles, oppure tentare il Modo Due.

— Qual è l’ultimo rapporto sul Jinx? — chiese d’un tratto Charlene.

— Sta bene.

— D’accordo. Allora dico, procediamo pure. Aspettare non servirà a nulla.

Se gli altri due erano rimasti sorpresi da quell’improvviso cambiamento di atteggiamento, nessuno dei due ne parlò. Si aggiustarono le maschere sul viso e tornarono subito dentro la camera. La temperatura all’interno era già scesa di un altro grado. I monitor registravano un ritmo del polso di quattro battiti al minuto per Judith Niles, e il sangue raffreddato veniva spinto pigramente attraverso le vene contratte.

Cominciò lo stadio finale. Sarebbe stato compiuto sotto il controllo del computer, con gli umani presenti soltanto per fornire un intervento svincolato dalla macchina se le cose fossero andate storte. De Vries iniziò la sequenza di controllo, poi si avvicinò alla figura immobile sopra il tavolo e appoggiò delicatamente il palmo della mano sulla fronte fredda.

— Buona fortuna, Judith. Faremo del nostro meglio. E comunicheremo con te, Dio volendo, quando arriverai là.

Rimase a fissare il suo viso per molto tempo. Le iniezioni di farmaci esattamente calibrate e la massiccia trasfusione di sangue chimicamente modificato era già iniziata. Adesso i monitor mostravano schemi strani, periodi stabili che si alternavano con cambiamenti improvvisi della velocità delle pulsazioni, delle conduttività epidermica, dell’equilibrio ionico, e dell’attività del sistema nervoso. Le proiezioni dell’oscilloscopio mostravano picchi e valli imprevedibili nei ritmi del cervello, a mano a mano che i cicli delle onde s’innalzavano, scendevano, si fondevano.

Perfino agli occhi esperti degli osservatori ogni cosa sui monitor appariva strana e poco familiare. Però non era una sorpresa. Come aveva richiesto, Judith Niles si stava imbarcando per uno strano viaggio. Avrebbe esplorato una regione dove il sangue era prossimo al punto di congelamento, dove le reazioni chimiche del corpo procedevano ad una frazione del loro ritmo usuale, dove soltanto pochi animali ibernati e nessun essere umano si erano mai avventurati per ritornare poi alla vita.

Il cuore raggelato rallentò ancora, e il sangue si mosse pigramente lungo le arterie e le vene raffreddate. D’un tratto il corpo sul tavolo fremette e si contrasse, poi fu di nuovo calmo. I monitor tremolarono a mo’ di avvertimento.

Ma adesso non ci sarebbe stato nessun ritorno. La ricerca era iniziata. Durante le prossime ore, Judith Niles sarebbe stata impegnata in un’impresa disperata. Doveva trovare un nuovo plateau di stabilità fisiologica, laggiù, dove nessun essere umano si era mai spinto prima; e la sua unica guida era una pista indistinta lasciata da un orso kodiak.

PARTE II 27.698 d. C.

— Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.

— Espressione proverbiale, attribuita al filosofo/scrittore pre-Volo Isaac (?) Clarke, 1984 (?) – 2100 (?) (Vecchio Calendario; Biblioteca dell’Archivio Centrale, Pentecoste). (Memoria a bolle difettosa; sezione delle registrazioni inaffidabile).

CAPITOLO DODICESIMO

Pentecoste

L’ultimo nuotatore era emerso rabbrividendo dal fiume sotterraneo e adesso sarebbe stato possibile mettere insieme i risultati finali. Peron Turca si strinse il caldo mantello intorno alle spalle e guardò indietro lungo la fila.

Eccoli là. Quattro mesi di selezioni preliminari li avevano ridotti ad appena un centinaio, dalle molte migliaia che si erano originariamente iscritti alle prove. E nei prossimi minuti il numero sarebbe stato ridotto ancora una volta a un esultante venticinque.

Tutti erano infangati, stanchi e sporchi fino alle ossa. La prova finale era stata micidiale, spingendo mente e corpo fino al limite. La nuotata sott’acqua di quattro miglia, nella più totale oscurità, lottando contro correnti raggelanti attraverso un labirinto di caverne interconnesse, era stata fisicamente molto ardua. Ma la pressione mentale, sapendo che le scorte di ossigeno sarebbero durate soltanto per cinque ore, era stata assai peggiore. Adesso la maggior parte dei concorrenti erano accasciati sulle piastrelle di pietra, intenti a riscaldarsi alla luminosa luce del sole, sfregandosi i muscoli doloranti e sorseggiando bevande zuccherate. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo perché il punteggio venisse calcolato, ma già la loro attenzione stava passando dalla folla rumorosa alla gigantesca proiezione che formava da sola una delle pareti esterne del colosseum.