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— O così, o lo ammazzeremo. Hai visto i monitor. — Mentre parlava era già passato ai controlli delle iniezioni della seconda cavità sperimentale, e stava aumentando con cautela i livelli ormonali nella massa corporea pesante mezza tonnellata di Jinx. — Ma sei tu il capo. Se insisti, lo terrò sotto un po’ più a lungo.

— No. — Si stava masticando le labbra, dondolandosi avanti e indietro davanti allo schermo. — Non possiamo correre il rischio. Procedi, Wolfgang, fallo riavere del tutto. Piena consapevolezza. Quanto è rimasta sotto in totale, Dolly?

— Centonovantun ore e quattordici minuti.

Lei scoppiò in una risata nervosa e torse i piedi per tornare a infilarli nelle scarpe. — Be’, è pur sempre un record per questa specie. Se non altro questo ci servirà di conforto. Puoi finire senza di me?

— Dovrò farlo. Non preoccuparti, se oggi questa è la mia quarta ora di straordinario. — Sorrise amareggiato, ma più fra sé che a Charlene. — Sai cosa penso? Semmai JN dovesse trovare un sistema per far rimanere un essere umano sveglio e sano di mente per ventiquattr’ore al giorno, la sua prima iniziativa sarà quella di far fare tre turni a gente come noi.

Charlene Bloom gli sorrise e annuì, ma la sua mente stava già andando al temuto incontro. A capo chino si avviò attraverso l’edificio simile a un hangar, il rumore dei suoi passi echeggiò fino all’alto tetto ondulato. Dietro di lei Wolfgang la guardò partire. La sua espressione era un misto di rabbia e di dolore.

— Esatto, Charlene — grugnì fra i denti. — Sei tu il capo, perciò tocca a te perderti le sfuriate. Mi sembra giusto. Ce lo meritiamo tutti e due, dopo quello che abbiamo fatto alla povera vecchia Dolly. Ma dovresti smetterla di leccare il culo a JN, e dirle invece che si sta facendo troppa fretta. È probabile che ti affidi la gestione delle clips, ma te lo meriti, avresti dovuto picchiare ben bene i piedi per terra, prima che perdessimo un campione da esperimento.

A cento metri di distanza lungo il tratto sgombro del pavimento, Charlene Bloom si girò di scatto per fissarlo. Lui parve sorpreso, sollevò la mano, e le fece un mezzo segno impacciato di saluto.

— Mi stai leggendo il pensiero? — Sbuffò, riportò l’attenzione alla sua consolle. — No, é soltanto pusillanimità. Lei preferirebbe rimaner qui, piuttosto che riferire a JN quello che è successo nell’ultima mezz’ora.

Passò al display di Jinx. Il grande orso bruno doveva essere riportato alla piena coscienza a una frazione di grado per volta. Non potevano permettersi di perderne un altro.

Si sfregò il mento ispido, si grattò l’inguine con fare assente, e si concentrò sui segnali telemetrici. Qual era il modo migliore? Nessuno aveva una vera esperienza in materia, neppure la stessa JN.

— Suvvia, Jinx. Facciamolo nella maniera giusta. Noi non vogliamo che tu soffra quando il tuo sangue ricomincerà a circolare, no? Prima lo zucchero nel sangue, d’accordo, poi l’equilibrio della serotonina e del potassio? Mi sembra ottimo.

Wolfgang Gibbs non era realmente arrabbiato con Charlene, gli piaceva troppo. Era la preoccupazione per Dolly e Jinx a scombussolarlo. Lui aveva poca pazienza o rispetto per la maggior parte dei suoi superiori. Ma per gli orsi Kodiak e gli altri animali che gli erano stati affidati aveva una smisurata dose di affetto e sollecitudine.

CAPITOLO SECONDO

Charlene Bloom impiegò quasi un quarto d’ora a percorrere l’intera lunghezza del capannone principale. Era più di una semplice riluttanza a partecipare alla riunione, quella che faceva rallentare i suoi passi. C’erano cinquanta esperimenti in corso nell’edificio. E per la maggior parte sotto il suo controllo amministrativo.

Sotto una volta fiocamente illuminata si aggiravano una ventina di gatti domestici, insonni e squilibrati. Una delicata operazione aveva rimosso parte della formazione reticolare, la sezione del cervello posteriore che controlla il sonno. Scorse i dati. Adesso erano svegli in continuazione da più di millecentoottanta ore, un mese e mezzo. I monitor mostravano finalmente i segni di una disfunzione neurologica. Poteva ragionevolmente definirla pazzia felina nei suoi rapporti mensili.

Adesso la maggior parte degli animali non mostrava alcun interesse nel cibo o nel sesso. Un piccolo gruppo era diventato feroce, attaccando qualunque cosa si avvicinasse a loro. Ma erano ancora tutti vivi. Quello era un progresso. Il loro penultimo esperimento era fallito in meno della metà di quel tempo.

Ogni settore dell’edificio conteneva dei recinti a temperatura controllata. Nella sezione successiva arrivò a una stanza dov’erano ospitati i marsupiali e i roditori in ibernazione. Passò lentamente davanti a ciascuna gabbia chiusa, tra le alte pareti: la sua attenzione era divisa fra gli animali e le considerazioni sull’imminente riunione.

Le marmotte e gli scoiattoli comuni erano lì, accanto ai gerboa mutati. Chi gestiva quella sezione? Aston, se ricordava bene. Non altrettanto organizzato né gran lavoratore, se paragonato a Wolfgang Gibbs, ma per lo meno non le faceva correre i brividi lungo la spina dorsale. Lei era più alta di Wolfgang. E sua superiore di tre gradi. Ma c’era qualcosa in quei suoi occhi bronzei… qualcosa che ricordava gli animali. Wolfgang non aveva paura degli orsi, o dei grossi felini, e neppure dei suoi superiori. Un pensiero inquietante le balenò all’improvviso nella mente. Quello sguardo. Una sera Wolfgang le avrebbe chiesto di uscire con lui. E poi?

D’un tratto, consapevole che il tempo stava passando, cominciò a correre lungo il corridoio successivo. Le scarpe la paralizzavano, ma non poteva permettersi di arrivare in ritardo. Quelle maledette scarpe… perché non riusciva mai a trovarne un paio che le andasse bene, come facevano tutti? Non devo arrivare in ritardo. Nei laboratori, da quando JN era stata nominata direttrice, la mancanza di puntualità era un peccato mortale («Quando fai tardare l’inizio d’una riunione, rubi il tempo a tutti facendo loro pagare la tua mancanza di efficienza…»).

Il corridoio si prolungava fuori dell’edificio principale, diventando un lungo marciapiede coperto. Rivolse il suo primo sguardo al disegno delle nuvole di metà mattina. Stava ancora cercando di piovere. Cosa mai stava succedendo? Il tempo era proprio ammattito. Da quando il ciclo climatico aveva cominciato a dare i numeri, nessuna delle previsioni valeva più una cicca. Una nebbia bassa si arricciava sopra le colline vicino a Christchurch, e faceva più caldo di quanto avrebbe dovuto. Stando a tutti i rapporti, la situazione era altrettanto brutta nell’emisfero settentrionale, almeno quanto lo era in Nuova Zelanda. E gli americani, i sovietici e gli europei stavano soffrendo d’una insufficienza di raccolti molto maggiore.

La sua mente riandò al primo laboratorio. Ogni cosa era stata concepita per produrre meno umidità. Non c’era da meravigliarsi che i condizionatori d’aria facessero nevicare su Jinx, l’umidità esterna doveva essere prossima al cento per cento. Forse avrebbero dovuto aggiungere un deumidificatore al sistema, quello che avevano adesso stava funzionando come una maledetta macchina per produrre neve. Avrebbe dovuto chiedere quell’aggiunta all’equipaggiamento alla riunione di oggi?

La riunione.

Charlene strappò la propria attenzione dagli esperimenti di laboratorio. Avrebbe avuto tutto il tempo di preoccuparsene più tardi. Accelerò il passo: su per una breve rampa di scale, una svolta a sinistra, e si trovò nella C-53, la sala conferenze dove venivano tenuti i riesami settimanali. E, grazie a Dio, c’era arrivata prima di JN.

S’infilò al suo posto al lungo tavolo, salutando con un cenno della testa gli altri che erano già seduti: «Ammazzafelini» Cannon da fisiologia, de Vries da Soggetti Esterni; Beppo Cameron da Farmacologia (con un tromboncino all’occhiello, dove diavolo l’aveva trovato, con quel clima inclemente?). Gli altri la ignorarono e continuarono ad esaminare le loro cartelle aperte.