Esalò un profondo sospiro. Metà strada. Una volta che avessero esplorato la superficie in gruppo, la catapulta sarebbe stata utilizzata per lanciare via tutti gli altri da Whirlygig, e Peron si sarebbe trovato di nuovo solo. Poi avrebbe operato un’ascensione alimentata (facendo gli scongiuri) dai jet della tuta fino alla sicurezza della nave in attesa.
CAPITOLO SEDICESIMO
Peron non riusciva a ricordare l’esatto momento in cui aveva saputo che sarebbe morto su Whirlygig. La consapevolezza di quel fatto era cresciuta in modo esponenziale, forse da più di un minuto, mentre la sua mente passava fulmineamente in rassegna ogni possibile via di scampo, respingendole tutte come impossibili. Alla fine, era certo che il freddo aveva sostituito la speranza. L’atterraggio era andato alla perfezione, quando gli altri sei contendenti ai quali era stata assegnata la visita di Whirlygig avevano incontrato senza problemi la rete di atterraggio. Wilmer, accoppiato con Kallen, si era dimostrato l’eccezione. Era arrivato sfrecciando troppo in fretta e troppo in alto, e soltanto il vigoroso strattone dato da Kallen al loro cavo lo aveva condotto abbastanza in basso da finire in mezzo alla rete.
Comunque, non pareva affatto scombussolato dal pericolo che aveva scampato per un pelo. — Immagino che tu avessi ragione, Kallen — disse in tono allegro, una volta arrivato a terra sano e salvo. — Strano davvero. Sarei stato pronto a scommettere dei buoni quattrini che io avevo la velocità giusta e tu quella sbagliata.
— Ringrazia il cielo di non essere stato tu il primo a scendere — esclamò Rosanne, con voce severa. Aveva visto quanto poco c’era mancato perché Kallen perdesse la presa. — Se l’avesse fatto Peron, sarebbe stato un grosso guaio per lui. E cos’hai là dentro? È probabile che sia la massa che non hai previsto nei tuoi calcoli.
Wilmer sollevò una cassetta verde. — Questa? Cibo. Non sapevo quanto tempo saremmo rimasti qui. Non ho nessun desiderio di morire di fame anche se a voi tutti la cosa non importa. E se fossi stato io il primo ad arrivare, Rosanne, con la mia traiettoria sarei stato anche il primo a uscire. A quella velocità, e a quella altezza, avrei mancato del tutto Whirlygig. C’è una morale in questo: meglio arrivare bassi e lenti che troppo alti e veloci.
Aveva cominciato a saltellare con cautela da un piede all’altro, saggiando il proprio equilibrio. L’effettiva gravità all’equatore di Whirlygig non era proprio zero, ma era così bassa che un balzo in alto di cento piedi era d’una facilità banale. Tutti ci avevano provato, perdendo ben presto l’interesse. Ci volevano minuti per ricadere sulla superficie, fluttuando come una piuma, e farlo una volta era un’esperienza più che sufficiente.
Presto cominciarono il cauto viaggio lontano dall’equatore di Whirlygig, muovendosi a piccoli gruppi e dirigendosi verso la confortevole gravità delle regioni polari. Soltanto Sy venne lasciato indietro, intento a fare i propri solitari e sconcertanti esperimenti in movimento sopra il terreno accidentato.
Procedere risultò più lento di quanto tutti si aspettassero. Potevano volare bassi sulla superficie facendo pochissimi sforzi, usando le piccole unità propulsive che erano state spedite dopo il loro atterraggio, ma la rapida rotazione di Whirlygig faceva sì che le forze di Coriolis fossero un fattore reale con cui misurarsi, e il loro calcolo richiedeva dei continui aggiustamenti alla loro linea di volo. I computer della tuta si rifiutavano di accettare e attuare un semplice calcolo per eseguire uno spostamento a nord, ed era facile deviare di venti o trenta gradi dalla rotta. Dopo che erano partiti da un paio d’ore, Sy li raggiunse e li superò tutti rapidamente. Aveva scoperto la propria ricetta per valutare e compensare gli effetti delle forze di Coriolis.
A mano a mano che volavano verso nord, l’aspetto del terreno sottostante cominciò gradualmente a cambiare. L’equatore era tutti un insieme di rocce fratturate, enormi frammenti, ammucchiati a formare improbabili archi, guglie e contrafforti che parevano sfidare la gravità. Pochi centinaia di chilometri più oltre, in direzione del polo, il terreno cominciava a spianarsi, assestandosi in una desolazione più piatta costellata di macigni frastagliati. Non era un paesaggio piacevole, e la temperatura era abbastanza fredda da congelare il mercurio. Ma esso a confronto con qualcuno degli altri mondi, Whirlygig pareva una località turistica.
Le tute possedevano efficienti sistemi di riciclaggio e ampie riserve di cibo. I contendenti avevano concordato di proseguire dritti fino al polo, per poi riposarsi lassù per qualche ora prima di ritornare all’equatore e andarsene. Stando a Gilby, avrebbero trovato una cupola-laboratorio di ragguardevoli dimensioni al polo nord, dove sarebbero stati in grado di dormire comodi, togliendosi le tute per qualche ora. Tutte le ricognizioni scientifiche su Whirlygig erano state completate molti anni prima, ma le attrezzature della cupola avrebbero dovuto essere ancora funzionanti.
Elissa e Peron avevano scelto di viaggiare fianco a fianco, con le rispettive radio regolate sulla conversazione privata. I computer della tuta avrebbero controllato i messaggi in arrivo, interrompendoli se ci fosse stato qualcosa di urgente. Elissa era tutto un ribollire di entusiasmo ed allegria.
— Ho un mucchio di cose da dirti — esclamò. — Non ho avuto una sola possibilità di parlarti, ieri, eri troppo impegnato a prepararti all’atterraggio quaggiù. Ma ho passato un bel po’ di tempo a farmi amico un membro dell’equipaggio: Tolider, quello con i capelli corti e il tardy come animaletto da compagnia.
— Non è sfuggito alla mia attenzione — dichiarò Peron, asciutto. — Ti ho visto mentre lo accarezzavi facendo finta che ti piacesse. Disgustoso. Perché mai qualcuno debba volere come animaletto da compagnia un verme grosso, grasso e peloso…
Elissa scoppiò a ridere. — Se dovessi descriverti quello che certa gente vuole da un tardy, sconvolgerei la tua anima innocente. Ma a Tolider piace averlo soltanto perché gli faccia compagnia, e lo cura molto bene. Chi ama me, ama il tardy, è quello che Tolider sembra pensare. Una volta che si è convinto che anche a me piacessero i tardi, è stato pronto a svelarmi la sua anima. Adesso, preferisci passare le prossime ore a fare il geloso, oppure vuoi sapere quello che mi ha detto?
— Oh, va bene. — La curiosità di Peron era troppo grande per permettergli di mantenere un tono distaccato e altero, e sapeva per propria esperienza quanto Elissa fosse in gamba nell’estrarre informazioni da chiunque. — Cosa ti ha detto?
— Dopo che si è sentito a suo agio con me, abbiamo parlato degli Immortali. Lui dice che non sono un imbroglio o qualcosa d’inventato dal governo. Non sono umani, e neppure alieni. Dice che sono macchine.
— Come fa a saperlo?
— Li ha visti. Lavora nello spazio da più di vent’anni, e si ricorda dell’ultima volta che sono venuti gli Immortali. Una volta che l’ho ammorbidito, ha detto anche qualcos’altro… chiudi il becco, Peron… qualcosa, dice lui, che il governo non vuole che nessuno giù su Pentecoste sappia mai. Me l’ha detto perché voleva avvertirmi, perché gli dispiaceva per me. Dice che alcuni dei vincitori dei giochi del Planetfest che vanno fuori dal pianeta vengono sacrificati agli Immortali. Loro, vale a dire noi, diventeranno essi stessi delle macchine.
— Sciocchezze!
— Sono d’accordo che sembra così. Ma mi ha fatto notare un gran numero di circostanze valide. Si sente parlare degli Immortali, ma non si ha mai modo di sentire la descrizione di uno di essi, nessuna storia che dica che sono come noi, che sono grandi, o piccoli, o che hanno i capelli verdi, e magari sei braccia. E dimmi, cosa ne è dei vincitori del Planetfest quando lasciano il pianeta?