Elissa si avvicinò per vedere cosa stava facendo Sy. — Problemi?
Lum si voltò e annuì. — Ci stavamo chiedendo quando sareste arrivati voi due. Sì, ci sono problemi. Forse, malgrado tutto, non passeremo una notte piacevole fuori dalle nostre tute.
Sy era ancora rannicchiato accanto al portello. Pareva piuttosto compiaciuto di dover affrontare una nuova sfida.
— Guardate, ecco come dovrebbe funzionare — disse. — C’è una camera di equilibrio con un portello interno e uno esterno. Il portello esterno, questo, ha un blocco d’emergenza, così non si apre quando c’è anche un minimo di pressione gassosa dentro la camera d’equilibrio. Prima bisogna svuotare la camera fin quasi al vuoto assoluto, e questo si può fare dall’esterno, il comando è questo qui, sulla parete esterna. Quando siamo arrivati, c’era atmosfera nella camera d’equilibrio, così, com’è naturale, non ha voluto aprirsi. Ora abbiamo pompato fuori l’atmosfera, le pompe funzionano bene, ma il portello non vuole ancora aprirsi.
— Un guasto al motore? — chiese Peron.
— Potrebbe essere. Il passo successivo è quello di cercare di aprire il portello manualmente. Ma vogliamo esser certi di sapere quello che stiamo facendo. Sull’altro lato della cupola c’è una grossa chiazza di sigillante nero. Suggerisce che c’è stato un impatto meteoritico, e che il sistema d’autoriparazione se n’è preso cura. Ma non sappiamo cosa l’impatto possa aver fatto all’interno, fino a quando non ci saremo arrivati. Non sappiamo quanti danni posano aver sofferto i sistemi meccanici. Forse la meteora ha colpito anche la camera di equilibrio. Dovremo entrare per scoprirlo.
Peron venne avanti ad esaminare la porta. Pareva intatta. — Sei sicuro che adesso non ci sia nessuna pressione nella camera?
— Certissimo. L’indicatore di livello funziona. Mostrava una pressione positiva quando siamo arrivati, e mentre pompavamo è sceso a zero.
— Perciò dovrebbe essere abbastanza sicura da aprirla manualmente — aggiunse Lum. — Ci stavamo preparando a farlo quando siete arrivati voi due. Venite, altre paia di mani possono essere di molto aiuto.
Il portello esterno della camera di equilibrio cedette con molta riluttanza, quando Sy, Lum e Peron tirarono con forza. Infine riuscirono ad aprirlo all’incirca a metà, uno spazio quasi sufficiente a far passare una persona.
— Adesso tocca a me — disse Rosanne. — Non potevo esservi molto utile a tirare e a sollevare, ma sono abbastanza magra da entrare là dentro, dove voi grassoni non potete, e vedere cosa succede. Fatemi spazio.
Si avvicinò all’ingresso della camera di equilibrio, si girò di fianco, e come un granchio cominciò a strisciare con cautela dentro l’apertura.
Peron era in piedi proprio alle sue spalle. Sentì il grido di avvertimento di Sy nell’identico momento in cui il pensiero gli balenò nella mente. Idioti! Se sappiamo che il portello esterno non funziona bene, perché presumere che i comandi di quello interno siano in condizioni migliori?
Si sporse in avanti, agguantò Rosanne alla vita e con un singolo strattone la tirò indietro e di lato, lontano dal portello esterno aperto della camera di equilibrio. Sentì un rantolo di sorpresa e di fastidio provenire dalla radio, mentre Rosanne slittava via sulla superficie argento e bruna del terreno. Poi, prima che potesse seguirla, una grande forza lo afferrò e lo trascinò via, mandandolo a ruzzolare sopra le rocce appuntite.
Anche mentre veniva sbatacchiato e strapazzato dentro la propria tuta, i suoi pensieri rimasero assai chiari. Il blocco di chiusura del portello interno doveva essere stato gravemente danneggiato, pronto a disattivarsi, appeso, per così dire, a un filo. Fintanto che c’era una pressione equalizzata sia nella camera di equilibrio che nella cupola, non sarebbe sorto nessun problema. Ma una volta che loro avevano pompato via la pressione presente nella camera di equilibrio, il portello interno si era trovato con tonnellate di pressione d’aria esercitate sulla sua faccia interiore. Se fosse venuto meno, tutti i gas della cupola sarebbero stati liberati attraverso la camera di equilibrio in una singola, gigantesca esplosione. E per chiunque si fosse trovato in mezzo…
Peron stava roteando e rimbalzando da una formazione rocciosa all’altra. Sentì tre collisioni separate e frantumanti, una sul petto, una sulla testa, e una lungo il fianco. Poi, tutt’a un tratto, finì. Giacque supino sulla superficie, fissando il globo color rubino di Cassby, e scoprì, stupefatto, di essere ancora vivo.
Gli altri si affollarono intorno a lui, aiutandolo a rialzarsi. Rimase sorpreso nel constatare che si trovava ad almeno cinquanta metri dalla cupola. Rosanne si era rialzata e stava agitando la mano per mostrare che stava bene.
— Sto bene anch’io — disse Peron.
Vi fu un lungo, strano silenzio da parte degli altri. Infine, Peron percepì una debole, sinistra sensazione di freddo sul lato inferiore sinistro del suo addome. Abbassò lo sguardo. La sua tuta era orribilmente deformata e scheggiata dal petto alle cosce, e sopra il suo addome appariva bianca invece del solito grigio metallico.
— Il rifornimento dell’aria funziona, ma ha perso due serbatoi. — Era stato Lum a parlare, con voce stranamente distorta, alle sue spalle. La radio della tuta si era presa una botta, ma funzionava ancora, a modo suo.
— Non c’è problema, può spartire i nostri.
— I comandi del motore sembrano a posto.
— I contenitori di cibo sono andati distrutti.
— Possiamo supplire.
— Oh, oh. Il sistema termico è fuori uso. E la maggior parte dell’isolante è strappato via dalla parte inferiore del tronco.
— Questo è un problema assai peggiore.
La distorsione della radio era talmente forte che Peron trovava difficile identificare i singoli interlocutori. Attivò il «privacy mode». Mentre loro esaminavano lo stato del suo equipaggiamento, la sua mente li precedette fulminea.
Valuta le scelte.
Pensa!
Quattordici ore per tornare all’equatore… diciamo che si possa ridurle a dieci ore, alla massima velocità. Qualche minuto nella catapulta di lancio, poi altre sei o sette ore fino al rendez-vous con la nave. Nessuna speranza. Anche col sistema d’isolamento perfettamente funzionante, a quelle temperature la sua tuta l’avrebbe protetto soltanto per tre o quattro ore. Sarebbe morto d’ipotermia molto prima di aver raggiunto l’equatore.
Mettersi una nuova tuta? Non ce n’era nessuna. Avevano con sé parti di ricambio per piccoli componenti delle tute, ma non una tuta intera.
Pensa. Infagottarlo dentro qualcosa che lo tenesse caldo a lungo? Bene, ma con che cosa? Non c’era niente.
Portarlo dentro la cupola, sostituire l’atmosfera andata perduta utilizzando quella disponibile nei serbatoi, e alzare la temperatura? Forse. Potevano introdurre l’aria là dentro in meno di un’ora. Ma non sarebbero stati in grado di generare calore abbastanza in fretta. Avrebbe potuto respirare, ma sarebbe morto assiderato lo stesso.
Mandare un segnale per l’atterraggio d’emergenza di una piccola nave sul polo di Whirlygig? Era probabile che fosse la speranza migliore, ma pur sempre troppo lenta. Diciamo tre o quattro ore per i preparativi, poi altre tre per arrivare fin lì. A quel punto lui, Peron, sarebbe stato un cadavere ghiacciato.
Altre idee? Non riuscì a trovarne nessuna. La sua metà andò avanti, scrivendo il proprio necrologio: Peron di Turcanta, vent’anni, che sopravvisse alle dune del deserto di Talimantor, alle foreste notturne di Villasylvia, al labirinto di Hendrack, alle caverne acquatiche dello Charant, ai ghiacciai di Capandor, alle profondità abissali della Fossa di Lackro… che ce l’aveva fatta, per poi morire congelato su Whirlygig. Il suo nome sarebbe stato aggiunto a quell’elenco di cui il governo non parlava mai, gli sfortunati che morivano nelle prove finali dei giochi del Planetfest che si svolgevano fuori del pianeta. Peron si risintonizzò la tuta sulla ricezione generale.