— Tutto sistemato — annunciò il capitano Rinker con voce aspra. — C’è un componente difettoso nel congegno di traduzione degli ordini. Non abbiamo pezzi di ricambio a bordo, perciò l’ho riparato alla bell’e meglio per questo viaggio.
— Durerà, o si guasterà di nuovo? — Quella era la voce di Olivia Ferranti.
— Alla fine si guasterà. Ma non subito, spero. — Rinker si produsse in un sonoro sbadiglio. — È stato quasi troppo per me. Mi ci è voluto molto tempo. Sono rimasto lì per quasi cinque minuti senza nessun riposo. Adesso devo andare a dormire.
Vi fu un mormorio di mezze voci solidali. — Speriamo che non si rompa di nuovo durante il viaggio — commentò ancora Garao, anche se in tono non molto convinto.
— Non lo farà — ribatté Rinker. — Non mi aspetto nessun altro guaio durante questo viaggio.
Peron rifletté su quelle parole mentre si allontanava in punta di piedi lungo il corridoio. Le azioni e i commenti di Rinker erano rivelatori, e adesso lui aveva una vaga idea di quello che stava succedendo.
Se aveva ragione, Rinker aveva più guai in vista di quanti ne immaginasse.
Non appena fu fuori portata di udito della sezione della mensa, Peron si rimise a correre alla massima velocità. L’emergenza era finita, e questo significava che i suoi movimenti sarebbero stati controllati di nuovo. C’erano dei monitor perfino dentro le bare?
Raggiunse la camera dell’animazione sospesa ed entrò subito nella stessa cassa che Rinker aveva occupato. Il portello si aprì con l’identico scricchiolio, lui si arrampicò dentro e si distese. Tutti i comandi erano a portata di mano. Avrebbe potuto regolarli semplicemente schiacciando un pulsante. Aveva già scelto. Non voleva S, poiché si trovava già in S-Spazio, e non voleva C (cold) perché quello era il sonno freddo di Elissa e degli altri. Doveva essere N, ma cosa voleva dire N?
Peron si era mosso con la massima velocità, ma adesso esitava. E se il procedimento che aveva trasportato Rinker fuori dall’S-Spazio avesse richiesto conoscenze che a lui mancavano? Era chiaro che gli altri a bordo della nave avevano dei poteri extra, dal momento che i suoi ordini di servizio venivano ignorati… E se l’uso di quel congegno avesse richiesto quegli stessi poteri?
Il tempo passava. La familiare sensazione di vertigine avrebbe potuto coglierlo in qualunque momento, e avrebbe scoperto di trovarsi, ancora una volta, nella sua stanza. Ma il suo dito sfiorava ancora, leggero, il pulsante. Quand’era stato assolutamente certo della morte su Whirlygig, era stato in grado di affrontarla con fermezza, con assoluta calma. Ma questo era diverso. Qualunque cosa potessero fargli Rinker e gli altri, non credeva che l’avrebbero ucciso. Ma adesso avrebbe potuto morire per mano propria. La sua prossima azione avrebbe potuto rivelarsi suicida.
Peron diede un’ultima occhiata alle pareti della bara. Adesso o mai più.
Tirò un lungo, profondo sospiro, chiuse gli occhi e schiacciò il pulsante contrassegnato N.
CAPITOLO VENTESIMO
Nessun cambiamento sconvolgente, nessun precipitare nell’assurdo. Peron si era aspettato un nauseante aggrovigliarsi delle viscere, o forse un insopportabile dolore durante la transizione. Invece, sentì il freddo tocco degli elettrodi alle sue tempie, e il tranquillo spruzzo del fluido sulla sua pelle. Si rilassò e si abbandonò a una quieta meditazione. Durò a lungo e terminò soltanto quando divenne consapevole del battito del proprio cuore, forte nell’intima camera segreta dei suoi orecchi.
Una sensazione di benessere lo stava invadendo, come se si stesse svegliando dal miglior sonno della sua vita. Ebbe la tentazione di rimanere là disteso per un tempo lunghissimo a crogiolarsi in quella sensazione. Ma poi fu colto dall’improvvisa paura di essersi semplicemente addormentato, che non fosse successo nient’altro. Preoccupato, aprì gli occhi e si guardò intorno. L’interno della bara non aveva cambiato la propria configurazione ma, cosa sorprendente, aveva in qualche modo cambiato colore, passando da un giallo-ocra a un pallido arancione. Perfino i suoi indumenti erano diversi, neri invece che marrone.
Si rizzò a sedere, poi si appoggiò a una parete per recuperare l’equilibrio. Si era addormentato in un campo gravitazionale d’un G; adesso era in caduta libera.
Il portello attraverso il quale era entrato non poteva venir chiuso dall’interno. E se l’avessero inseguito? Ben conscio che c’erano ancora delle probabilità che venisse seguito e scoperto, Peron si avvicinò all’altro portello, aiutandosi con le mani e i piedi. Doveva ringraziare il cielo per l’esperienza fatta in caduta libera dopo che avevano lasciato Pentecoste! Adesso si sentiva un po’ strano, ma non c’erano vertigini né sensazioni di nausea.
Il portello si aprì subito. Sgusciò fuori attraverso l’apertura e si chiuse il portello alle spalle. C’era una serratura esterna, e la sistemò in maniera tale che il portello non potesse venir più aperto dall’interno della cassa. Poi si mosse lungo la fila degli altri portelli, e chiuse ognuno di essi nella stessa maniera. Allora, e soltanto allora, si sentì per la prima volta al sicuro.
Si guardò intorno. Stava fluttuando in un lungo corridoio curvo, illuminato dalla luce fioca dei tubi gialli che correvano paralleli alle pareti, e molto lontano, in distanza, poteva udire un sibilo e un sordo borbottio. Andò in quella direzione.
Quando il corridoio girò, si trovò in una stanza quadrata, con una delle pareti del tutto trasparente. Rimase là a lungo, sopraffatto dalla vista dell’universo fuori della nave. La debole foschia luminosa dell’S-Spazio era scomparsa. Invece stava fissando uno scintillante mare di stelle, brillanti come potevano apparire soltanto nello spazio aperto, le vecchie costellazioni familiari erano tutte là, proprio come gli erano apparse dall’orbita intorno a Pentecoste. Gli dettero una bizzarra, rassicurante sensazione. Era ancora vivo, ed era tornato in un universo che lui, forse, comprendeva.
Mentre stava ancora guardando, vi fu un rombo più intenso nel corridoio. Una macchina si stava avvicinando, spostandosi lungo la parete su un invisibile binario magnetico. Il congegno principale era piccolo, grande appena come la sua testa, ma un certo numero di braccia articolate erano ripiegate e incassate nel suo fianco. Peron l’osservò guardingo.
Si muoveva molto lentamente, meno veloce di qualcuno che stesse camminando. Giunta a pochi metri da lui, s’infilò dentro una piccola porta, dentro una parete del corridoio. Peron riconobbe quel tipo di apertura: ce n’erano a centinaia dappertutto nella nave: si trovavano negli alloggi, nella mensa, nella biblioteca, e lui non era stato capace di aprirne neanche una. La macchina non ebbe quel problema. Scivolò dentro liscia come l’olio e scomparve.
Peron continuò per la sua strada. Si trovava in una parte della nave dove non era mai stato prima. Alla fine il passaggio lo condusse a una grande camera, dove si trovavano centinaia di macchine. La maggior parte di esse era immobile, ma di tanto in tanto una, o più, si mettevano in movimento scivolando via per svolgere qualche compito misterioso. Peron seguì un paio di queste macchine. Ognuna alla fine passò attraverso una delle piccole porte che fiancheggiavano i corridoi.
Peron decise che avrebbe dovuto trovare un posto tranquillo in cui pensare. Si spinse più avanti lungo il corridoio, e alla fine scoprì di trovarsi in un tipo diverso di camera. Questa era una dispensa automatica, simile a quella che aveva servito i vincitori del Planetfest durante i loro viaggi in giro per il sistema di Cass. Peron trovò un rubinetto dell’acqua e bevve a fondo. Gozzovigliò nella sensazione pulita di quel liquido puro sulla lingua e sul palato. Per quanto avesse molte specifiche virtù, l’S-Spazio rendeva senza alcun dubbio assai meno interessante il sapore del cibo e delle bevande. Peron impiegò qualche altro istante a studiare la disposizione dei vari congegni, e notò che l’attrezzatura produttiva era diversa da qualunque altra cosa avesse visto nell’altra dispensa. A giudicare dall’aspetto, poteva produrre un menù standard, ma anche qualcosa con degli ingredienti aggiuntivi, sconosciuti.