Mentre guardava, quattro di quei piccoli robot entrarono rotolando nella zona della dispensa. Lo ignorarono. Trasportavano dei piatti, la maggior parte dei quali contenevano ancora i resti di un pasto. Uno di quei piatti attirò il suo sguardo. Conteneva una pietanza speziata ancora intatta. La stessa pietanza che gli era stata servita durante il suo ultimo pasto nell’S-Spazio. La superficie del robot era luccicante di umidità. Peron si avvicinò a una delle piccole macchine e la toccò. Il metallo era freddo come il ghiaccio. Si portò il dito alla bocca e assaggiò il liquido con la lingua. Le gocce erano di acqua comune, condensata dall’aria intorno a lui.
Si sedette sul pavimento, si prese la testa fra le mani, e rifletté. Tutto aveva senso, se fosse riuscito a costringere la sua mente ad accettare un’incredibile possibilità. Ed era una possibilità che finalmente era in grado di controllare da solo.
Peron si alzò in piedi, prese la più pesante zuppiera che riuscì a trovare nella dispensa, e la vibrò con quanta forza poteva contro una delle pareti metalliche. Neppure si deformò. Peron tornò nella camera dove sedevano i robot pazienti, e aspettò fino a quando uno di essi si alzò dalla sua posizione. Poi lo seguì da vicino mentre procedeva lungo uno dei numerosi passaggi che si diramavano dall’apertura centrale. Quando la macchina si girò per passare attraverso una delle piccole porte, Peron era pronto. La porta si aprì e il robot vi sgusciò dentro. Mentre la porta era ancora aperta, Peron incastrò il robusto contenitore metallico dentro l’apertura. Vi fu uno squittio metallico e un lamento di protesta del meccanismo di controllo della porta, ma la porta rimase aperta.
Peron si rannicchiò giù e guardò attraverso la porta.
Fu investito da una gelida corrente d’aria proveniente dal lato opposto. Là dentro la temperatura doveva essere molto prossima al punto di congelamento. Il piccolo robot aveva proseguito per la sua strada, e l’aria più oltre era illuminata soltanto dal più smorto baluginare di luce rossastra che si potesse immaginare.
Peron valutò l’ampiezza della porta con lo sguardo. Ci sarebbe stato giusto lo spazio bastante per consentirgli di passare, sempre che fosse stato disposto a rischiare la pelle delle spalle. Si sfilò la giacca, la spinse davanti a sé e, dimenandosi, passò sull’altro lato.
Là era ancora più freddo e buio di quanto avesse immaginato. Rabbrividì e si strinse la giacca intorno al corpo. A meno che non si fosse procurato altri indumenti, non avrebbe potuto fermarsi là dentro a lungo.
Peron riconobbe la stanza in cui adesso si trovava. Era vicina all’alloggio di Rinker. C’era già stato nel corso delle sue prime esplorazioni della nave. Ma c’era una grande differenza. Invece del campo d’un G, adesso sentiva di essere sempre in caduta libera.
Il piccolo robot era scomparso. Mentre aguzzava gli occhi, lo vide ricomparire in fondo al corridoio. Stava trasportando una bottiglia vuota della bevanda fermentata che Rinker era solito godersi nei suoi pasti solitari. Il robot sì stava avvicinando sempre più. Ancora una volta ignorò Peron. Superò la porta tenuta aperta dalla zuppiera, poi andò verso un’altra porta e con calma passò dall’altra parte. Mentre faceva questo, un paio di altri robot di servizio comparvero sull’altro lato e si misero al lavoro per liberare la porta dall’ostacolo e ripararla.
Peron non rimase ad osservare. Si affrettò a raggiungere l’appartamento di Rinker, dove il capitano sedeva su una poltroncina. Era completamente immobile, con la mano sollevata e la bocca aperta. Peron rimase ad osservarlo per parecchi minuti. Alla fine la mano si avvicinò con estrema lentezza alla bocca aperta. Peron fece un passo avanti e toccò la guancia di Rinker. Era come marmo ghiacciato. Le sue dita puntate a un pollice dagli occhi di Rinker non produssero nessun riflesso, nessun ammiccamento delle palpebre.
Era una prova più che sufficiente. Peron si affrettò ad uscire e si diresse verso la camera di animazione sospesa. Lungo il percorso attraversò la zona della mensa, dove le figure immobili di Garao, della Ferranti e di Atiyah sedevano ancora a tavola, tre sculture perfette di morte congelata.
La camera dell’animazione sospesa era deserta. Peron sostò a lungo davanti alle bare del sonno freddo. Ancora una volta s’interrogò sulle proprie motivazioni. Rischiare la propria vita era una cosa; mettere a repentaglio la vita dei suoi amici era un’altra. Non sarebbe stato forse meglio aspettare fino a quando la nave non fosse arrivata al misterioso Quartier Generale degli Immortali, per vedere come il gruppo sarebbe stato trattato laggiù?
Cercò d’immaginare le risposte che gli altri gli avrebbero dato. Parte della sua mente poteva creare una conversazione simulata con Lum, Kallen, Sy, Elissa e Rosanne.
— Voi non correte nessun pericolo dentro i serbatoi, ed io non sono affatto sicuro di come funziona il processo di rianimazione. Sembra semplice, ma supponete che ci sia un inghippo nascosto? Forse dovrei aspettare per vedere cosa succede una volta che saremo arrivati al Quartier Generale.
Pensò di sentire il loro consenso: — Diavolo, no. Se c’è una cosa che nessuno di noi riesce a sopportare, è che qualcun altro diriga la nostra vita. Tu lo sai. Perché pensi che ci considerassero piantagrane? Procedi. Pianta queste grane! Facci uscire di qui.
Peron si avvicinò a turno a ciascun serbatoio per esaminarlo. I comandi erano tutti identici. Poteva cambiare la regolazione dei quadranti, sulla S o sulla N, e c’era una tabella che indicava la procedura corretta da seguire per ciascuno di essi. Il ritorno dal sonno freddo all’N-spazio era un procedimento piuttosto lungo. Ci sarebbero volute dodici ore. Ma Peron non aveva bisogno di rimanere là a far la guardia per tutto il tempo. Avrebbe cercato indumenti caldi per tutti: Elissa e gli altri erano completamente nudi, salvo per la sottile pellicola bianca che li copriva. Poi, avrebbe potuto aprire un’altra porta incastrandola, e tornare nell’area più calda dove vivevano i robot ed era situata la dispensa.
Considerò la possibilità di erigere una barricata davanti alla porta che conduceva nella camera dell’animazione sospesa, poi decise che non sarebbe stato necessario. Se le cose fossero andate secondo i piani, il suo lavoro sarebbe finito prima che Rinker e gli altri potessero interferire.
Prima Elissa. Non vedeva l’ora di rivederla, di poterle parlare di nuovo. Gli ci vollero soltanto pochi istanti per cambiare la regolazione e schiacciare i comandi di Inizio. Peron sbirciò ansioso attraverso la sommità trasparente del serbatoio. C’era un ronzio di motori all’interno della bara, e dopo pochi istanti un vapore giallo cominciò a riempirlo. Elissa, e ogni altra cosa là dentro, divennero ben presto invisibili. Trepidante, Peron passò da un serbatoio all’altro, regolandoli sulle condizioni che avrebbero dovuto riportare tutti i suoi amici alla coscienza, facendoli uscire dal sonno freddo.
Per Elissa, l’orrore era cominciato quando aveva visto le condizioni della tuta di Peron. La superficie ruvida di Whirlygig l’aveva lacerata e forata, al punto da rendere del tutto inefficace la sua protezione termica. Le temperature esterne davano per certo che Peron non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere.
Ma il loro dolore per la sorte di Peron aveva avuto appena il tempo di manifestarsi quando Wilmer aveva preso il comando. Perfino la fiducia in se stesso di Lum e la remota aria di superiorità di Sy erano state spazzate via dalla risoluta certezza dell’altro.