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Ognuno di noi aveva ampie possibilità d’interrogarlo. Lui si assoggettava con noia evidente alle nostre domande, ma ci eludeva quando cercavamo di torchiarlo sul serio. Gli parlai per parecchie ore, un pomeriggio a St. Louis, cercando di farlo cadere sugli argomenti che per me avevano l’interesse più immediato. Non ne cavai nulla.

«Non vuoi spiegarmi un po’ come sei arrivato nel nostro tempo, Vornan? Del meccanismo di trasporto?»

«Vuoi sapere della mia macchina del tempo?»

«Sì. Sì. La tua macchina del tempo.»

«In realtà non è proprio una macchina, Leo. Cioè, non devi pensare che abbia leve e quadranti e cose del genere.»

«Vuoi descrivermela?»

Vornan scrollò le spalle. «Non è facile. È… beh, più un’astrazione che altro. Non ne ho visto molto. Entri in una stanza, e comincia ad entrare in funzione un campo, e poi…» Non concluse la frase. «Mi dispiace. Non sono uno scienziato. Ho solo visto la stanza, in effetti.»

«Sono altri che fanno funzionare la macchina?»

«Sì, sì, naturalmente. Io ero soltanto il passeggero.»

«E la forza che ti sposta attraverso il tempo…»

«Sinceramente, caro, non so immaginare come sia.»

«Neppure io, Vornan. E il guaio è proprio questo. Tutto ciò che io so in fatto di fisica grida che non è possibile mandare indietro nel tempo un uomo vivo.»

«Ma io sono qui, Leo. Ne sono la prova.»

«Presumendo che tu abbia veramente viaggiato attraverso il tempo.»

Mi guardò avvilito. Mi prese la mano; le dita erano fresche, stranamente morbide. «Leo,» disse, addolorato, «stai esprimendo un sospetto?»

«Io sto semplicemente cercando di scoprire come funziona la tua macchina del tempo.»

«Te lo direi, se lo sapessi. Credimi, Leo. Nei tuoi confronti non provo altro che i sentimenti più affettuosi, e così pure per tutti gli individui sinceri, laboriosi e premurosi che ho trovato qui nel vostro tempo. Ma davvero non lo so. Vedi, se tu salissi sulla tua macchina e tornassi nell’anno 800 e qualcuno ti chiedesse di spiegare come funziona quella macchina, saresti in grado di farlo?»

«Sarei in grado di spiegare alcuni principi fondamentali. Non saprei costruire un’automobile, Vornan, ma so che cosa la fa muovere. Tu non mi dici neppure questo.»

«È infinitamente più complesso.»

«Forse potrei vedere quella macchina.»

«Oh, no,» fece Vornan, in tono leggero. «È mille anni più avanti nel tempo. Mi ha lanciato qui e mi riporterà indietro quando deciderò di andarmene, ma la macchina stessa, che come ti ho detto non è esattamente una macchina, è rimasta là.»

«E come farai a dare il segnale perché ti riporti indietro?» domandai.

Vornan finse di non aver sentito. Cominciò invece a interrogarmi sulle mie responsabilità universitarie; era il suo trucco tipico, rispondere ad una domanda imbarazzante con altre domande. Non riuscii a strappargli un briciolo d’informazione. Al termine del colloquio, il mio scetticismo fondamentale era rinato. Vornan non poteva dirmi niente della meccanica del viaggio nel tempo perché non aveva viaggiato nel tempo. Come volevasi dimostrare. Era egualmente evasivo anche a proposito della conversione dell’energia. Non voleva dirmi quando era entrata nell’uso comune, come funzionava, a chi era attribuita l’invenzione.

Gli altri, però, di tanto in tanto avevano un po’ più di fortuna con lui. Soprattutto Lloyd Kolff, il quale probabilmente aveva espresso allo stesso Vornan vari dubbi sulla sua autenticità, ebbe l’onore di una straordinaria disquisizione. Kolff non si era dato molto da fare per interrogare Vornan durante le prime settimane del nostro giro turistico, forse perché lo considerava fasullo, forse perché era troppo pigro per prendersi un simile disturbo. Il vecchio filologo aveva dimostrato una vena d’indolenza impressionante. Era chiaro che campava sugli allori professionali guadagnati venti o trent’anni prima, e adesso preferiva passare il tempo andando a donne e facendo baldoria, e accettando il sincero omaggio degli esponenti più giovani della sua specializzazione. Avevo scoperto che il vecchio Lloyd non aveva più pubblicato un saggio importante dal 1980. Sembrava quasi che considerasse il nostro incarico come uno spasso, un modo divertente per passare un inverno che altrimenti avrebbe dovuto trascorrere nel grigiore di Morningside Heights. Ma a Denver, in una nevosa notte di febbraio, Kolff si decise finalmente ad affrontare Vornan dal punto di vista linguistico. Non so perché lo fece.

Rimasero in conciliabolo per parecchio tempo. Attraverso le sottili pareti dell’albergo potevamo sentire la voce tonante di Kolff cantilenare ritmicamente in una lingua che nessuno di noi capiva: forse recitava a Vornan versi erotici in sanscrito. Poi tradusse, e noi riuscimmo ad afferrare qualche parola salace, addirittura qualche verso pepato sui piaceri dell’amore. Dopo un po’, ce ne disinteressammo; avevamo già avuto occasione di assistere a quei recital di Kolff. Quando mi presi la briga di origliare di nuovo, captai la risata leggera di Vornan che tagliava come un bisturi argenteo i tuoni rimbombanti di Kolff, e poi, vagamente, sentii il visitatore parlare in una lingua sconosciuta. Sembrava che là dentro la faccenda diventasse seria. Kolff l’interruppe, gli fece una domanda, recitò qualcosa a sua volta, e Vornan parlò di nuovo. A questo punto Kralick venne da noi per consegnarci le copie dell’itinerario della mattina dopo (dovevamo condurre Vornan nientemeno che a visitare una miniera d’oro) e non facemmo più caso all’interrogatorio.

Un’ora dopo, Kolff entrò nel salotto dove stavamo noi. Era agitato e rosso in viso. Si tirò pesantemente un lobo carnoso dell’orecchio, si strinse i rotoli di grasso sulla nuca, fece crocchiare le dita con un suono simile ad un crepitare di pallottole. «Accidenti,» borbottò. «Per l’eterna dannazione!» Attraversò il salotto a grandi passi, si fermò per un po’ davanti alla finestra, fissando i grattacieli coronati di neve e poi chiese: «Cosa c’è da bere?»

«Rum, bourbon, scotch,» disse Helen. «Serviti pure.»

Kolff si precipitò verso il tavolo dove stavano le bottiglie semivuote, prese il bourbon e se ne versò una dose che avrebbe paralizzato un ippopotamo. Lo buttò giù liscio, in tre o quattro sorsate avide, e lasciò cadere il bicchiere sul pavimento spugnoso. Restò lì, con i piedi piantati saldamente, tormentandosi il lobo dell’orecchio. Lo sentii bestemmiare in una lingua che poteva essere il Middle English.

Alla fine Aster chiese: «Hai imparato qualcosa da lui?»

«Già. Moltissimo.» Kolff si lasciò cadere su una poltrona e attivò il meccanismo che la faceva vibrare dolcemente, rilassando. «Ho imparato da lui che non è un impostore!»

Heyman soffocò un gemito. Helen sembrava sbalordita, ed io non l’avevo mai vista così scossa. Fields proruppe: «Cosa diavolo vorresti dire, Lloyd?»

«Mi ha parlato… nella sua lingua,» disse Kolff, con voce impastata. «Per mezz’ora. Ho registrato tutto. Domani lo passerò al computer per l’analisi. Ma posso dire che non era un falso. Soltanto un genio della linguistica avrebbe potuto inventare una lingua come quella, e non avrebbe saputo farlo così bene.» Kolff si diede una manata sulla fronte. «Mio Dio! Mio Dio! Un uomo venuto dal futuro! Com’è possibile?»

«E l’hai capito?» chiese Heyman.

«Datemi ancora da bere,» disse Kolff. Prese la bottiglia di bourbon che Aster gli porgeva e se la portò alle labbra. Si grattò il ventre peloso. Si passò la mano davanti agli occhi, come se cercasse di togliere delie ragnatele. Finalmente disse: «No, non l’ho capito. Ho afferrato soltanto gli schemi. Parla una derivazione dell’inglese… ma è un inglese lontano dal nostro tempo quanto lo è la lingua della Anglo-Saxon Chronicle. È pieno di radici asiatiche. Un po’ di mandarino, un po’ di bengali, un po’ di giapponese. C’è anche dell’arabo, ne sono sicuro. E di malese. È una macedonia di lingue.» Kolff ruttò. «Sapete, il nostro inglese è già un grosso guazzabuglio. C’è dentro il danese, il francese dei normanni, il sassone, un pasticcio, e due filoni principali, quello latino e quello teutonico. Perciò abbiamo molte parole in duplicato, abbiamo preface e foreword, abbiamo perceive e know, power e might. Entrambi i filoni, tuttavia, provengono dalla medesima fonte, l’antica madrelingua indoeuropea. Nel tempo di Vornan hanno cambiato tutto. Hanno adottato parole provenienti da altri gruppi ancestrali. E hanno mescolato tutto. Che lingua! In una lingua simile si può dire qualunque cosa. Qualunque cosa! Ma ci sono soltanto le radici. Le parole sono levigate come ciottoli in un ruscello, con tutte le rozzezze eliminate, le inflessioni scomparse. Lui emette dieci suoni, e comunica venti frasi. La grammatica… mi ci vorrebbero cinquant’anni per scoprire la grammatica. E cinquecento per capirla. La fine della grammatica… una bouillabaisse di suoni, un pot-au-feu di linguaggio… incredibile, incredibile! C’è stato un altro cambiamento di vocali, più radicale dell’ultimo. Parla… come in poesia. Una poesia onirica che nessuno può capire. Io ho afferrato soltanto qualche frammento…» Kolff tacque. Si massaggiava la pancia enorme. Non l’avevo mai visto così serio. Era un momento di profonda commozione.