Fields l’infranse. «Lloyd, come puoi essere sicuro di non avere immaginato tutto questo? Una lingua che non puoi capire, come puoi interpretarla? Se non riesci a individuare una grammatica, come sai che non stava snocciolando soltanto suoni senza senso?»
«Sei un cretino,» rispose disinvolto Kolff. «Dovresti farti pompare dalla testa tutto il veleno che hai dentro. Ma allora, il tuo cranio si sfascerebbe.»
Fields sibilò. Heyman si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, in rapidi passi da pinguino; sembrava in preda ad una nuova crisi interiore. Io stesso mi sentivo molto a disagio. Se Kolff era stato convertito, quali speranze restavano che Vornan non fosse quel che affermava di essere? Le prove si accumulavano. Forse era solo il frutto dell’immaginazione decadente di Kolff. Forse Aster aveva letto erroneamente i dati degli esami medici di Vornan. Forse. Forse. Dio mi aiuti, non volevo credere che Vornan tosse autentico, perché sarebbe stato un disastro per le mie convinzioni scientifiche, e mi addolorava sapere che stavo violando quella confusa astrazione che è il codice della scienza, creando una struttura a priori per la mia tranquillità emotiva. Mi piacesse o no, quella struttura stava crollando. Forse. Per quanto tempo ancora, mi chiesi, avrei cercato di tenerla in piedi? Quando avrei accettato, come aveva fatto Aster, come adesso faceva Kolff? Quando Vornan avrebbe compiuto un viaggio nel tempo sotto i miei occhi?
Helen disse dolcemente: «Perché non ci fai ascoltare la registrazione, Lloyd?»
«Sì. Sì. La registrazione.» Tirò fuori un piccolo registratore a forma di cubo e, pasticciando un po’, riuscì a inserirlo nella fenditura di un’unità di playback. Premette il pulsante del sonoro e all’improvviso fluì nella stanza un torrente di suoni sommessi ed erosi. Tesi l’orecchio per ascoltare. Vornan parlava con una cantilena, giocosamente, abilmente, variando tono e timbro, così che la sua parlata era simile ad un canto, e qua e là c’era un frammento tentatore di una parola comprensibile che fuggiva rapido. Ma non ne compresi nulla. Kolff aveva intrecciato le grosse dita, annuiva e sorrideva, agitava i piedi in qualche momento particolarmente critico, e di tanto in tanto mormorava «Sì? Capite? Capite?»; ma io non capivo, e non udivo neppure. Era puro suono, ora madreperlaceo, ora azzurrino, ora turchese, tutto misterioso, per nulla intelligibile. Il cubo ronzò, finì, e quando tacque restammo seduti in silenzio, come se la melodia delle parole di Vornan aleggiasse ancora; ed io compresi che per me non era stato provato nulla, sebbene Lloyd poteva anche accettare quei suoni come figli dell’inglese. Kolff si alzò solennemente e intascò il cubo. Si rivolse a Helen McIlwain, i cui lineamenti erano trasfigurati, come se avesse assistito ad un rito incredibilmente sacro. «Vieni,» disse lui, toccandole il polso ossuto. «È ora di andare a dormire, e non è una notte per dormire soli. Vieni.» Uscirono insieme. Io udivo ancora la voce di Vornan declamare gravemente un lungo brano in una lingua che sarebbe nata solo di lì a molti secoli; o forse si limitava a snocciolare una sfilza di rumori privi di senso. E mi sentii cullato, dal suono del futuro o dal suono di una frode ingegnosa.
XII
La nostra carovana procedette verso Ovest, dalla nevosa Denver all’assolato benvenuto della California, ma io non restai con gli altri. Mi aveva preso una grande irrequietezza, la smania di allontanarmi per un po’ da Vornan e da Heyman e da Kolff e dagli altri. Ero in missione da più di un mese, ormai, e cominciavo a risentirne. Perciò chiesi a Kralick l’autorizzazione a prendermi una breve licenza; me la concesse ed io mi diressi verso il Sud dell’Arizona, verso la casa nel deserto di Jack e Shirley Bryant, con l’intesa che avrei raggiunto il gruppo una settimana dopo, a Los Angeles.
Era l’inizio di gennaio quando avevo visto Jack e Shirley per l’ultima volta. Ormai era metà febbraio, e perciò non era passato molto tempo. Eppure, interiormente, doveva esserne trascorso uno assai lungo, per loro e per me. Li vidi cambiati. Jack sembrava tirato e scosso, come se non dormisse abbastanza; i suoi movimenti erano nervosi e sussultanti, ed io ripensavo al vecchio Jack, il pallido ragazzo della Costa orientale che era piovuto nel mio laboratorio tanti anni fa. Era regredito. La calma del deserto l’aveva abbandonato. Anche Shirley sembrava sottoposta a non so qualche tensione. La lucentezza dei suoi capelli d’oro s’era offuscata, ed i suoi movimenti erano rigidi; vedevo groppi di muscoli contratti formarsi di continuo alla sua gola. Reagiva alla tensione, per compensarla, con un’eccessiva gaiezza. Rideva troppo spesso e troppo sonoramente; la sua voce saliva spesso di tono in modo innaturale, e diventava stridula, aspra, vibrante. Sembrava molto più vecchia: se in dicembre aveva dimostrato venticinque anni anziché i suoi trenta, adesso pareva sull’orlo della quarantina. Notai tutto questo nel giro di pochi minuti dal mio arrivo, quando le differenze del genere appaiono più chiaramente. Ma non dissi nulla di ciò che vedevo, e fu un bene, perché le prime parole furono quelle di Jack:
«Mi sembri stanco, Leo. Questa faccenda deve averti veramente esaurito.»
E Shirley: «Sì, povero Leo. Tutti quegli stupidi viaggi. Hai bisogno di riposarti a dovere. Potresti combinare in modo da restare qui più di una settimana?»
«Ma sono proprio un rottame?» ribattei io. «È così evidente?»
«Un po’ di Sole dell’Arizona farà prodigi,» promise Shirley, e rise in quel suo modo nuovo, agghiacciante.
Il primo giorno non facemmo quasi altro che cuocere al Sole dell’Arizona. Ci stendemmo, tutti e tre, sulla terrazza, e dopo tre settimane di umido inverno era una gioia sentire il calore sulla pelle nuda. Pieni di tatto come sempre, loro due non affrontarono, per quel giorno, l’argomento delle mie recenti attività; prendemmo il Sole e dormicchiammo, chiacchierammo un po’, e la sera cenammo con bistecche alla griglia ed una bottiglia di Chambertin dell’88. Quando sul deserto scese il freddo della notte, ci sdraiammo sul soffice tappeto ad ascoltare le danzanti melodie di Mozart, e tutto ciò che avevo fatto e visto in quelle ultime settimane si dileguò e divenne irreale.