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Da un punto imprecisato venne un tossicchiare discreto che interruppe le fantasticherie di Gibson. Quindi una voce amplificata dal megafono disse in tono pacato:

«Se il signor Gibson vuole avere la bontà di scendere nel quadrato ufficiali troverà sulla tavola una tazza di caffè ancora tiepido e una fetta di porridge.»

Diede una rapida occhiata all’orologio. Aveva completamente dimenticato la colazione… fenomeno senza precedenti. Certo qualcuno doveva essere andato a cercarlo in cabina e non avendovelo trovato stava tentando di rintracciarlo attraverso il sistema di altoparlanti.

Quando riuscì infine a infilarsi come Dio volle nel quadrato ufficiali, trovò l’equipaggio impegnato in una discussione tecnica sui meriti dei vari tipi di navi interplanetarie. Ascoltò con attenzione mentre mangiava svogliatamente.

In quel momento stava parlando il dottor Scott. Scott gli parve uno di quei tipi sgradevoli che intendono imporre il proprio punto di vista su qualsiasi argomento. Il suo avversario più congeniale era Bradley, lo specialista in elettronica e in scienza delle comunicazioni, un personaggio cinico, asciutto, che sembrava prendere un piacere enorme a sabotare verbalmente il prossimo. Il piccolo matematico scozzese Mackay entrava ogni tanto nella battaglia esprimendosi con frasi brevi e precise, quasi pedanti.

Il capitano Norden, apparentemente, si comportava come un arbitro non del tutto disinteressato, sostenendo ora l’uno ora l’altro nel tentativo d’impedire una vittoria decisiva. Il giovane Spencer era già al lavoro, mentre Hilton, il solo membro dell’equipaggio che, Gibson non avesse ancora notato, non prendeva parte alla discussione. L’ingegnere se ne stava tranquillamente seduto a osservare gli altri con interesse distaccato. La sua faccia sembrò stranamente familiare a Gibson. Dove l’aveva già incontrato? Ma certo! Che imbecille a non capirlo subito! Quello era il famoso Hilton. Lo scrittore si girò sulla sedia per guardarlo meglio. Aveva completamente dimenticato la colazione consumata a metà, e guardava con rispetto misto a invidia l’uomo che aveva riportato l’Arcturus su Marte dopo la più grande avventura nella storia del volo spaziale.

Soltanto sei uomini erano arrivati fino a Saturno, e soltanto tre di loro erano ancora vivi. Hilton aveva sostato con i suoi compagni perduti su quei pianeti lontani, i cui stessi nomi sapevano di magia: Titano, Enceladus, Teti, Rea, Dione… Aveva visto lo splendore incomparabile dei grandi anelli che cerchiano simmetricamente il cielo e sembrano troppo perfetti per essere opera della natura. Era stato in quell’Ultima Thule in cui roteano i freddi giganti esiliati della dispersa famiglia solare, ed era tornato alla luce e al calore dei mondi interni.

Il gruppo si stava sciogliendo e i vari ufficiali se ne andavano volteggiando verso i loro posti, ma i pensieri di Gibson ruotavano ancora intorno a Saturno quando il capitano Norden gli si avvicinò interrompendo le sue fantasie.

«Non so che programma vi siete fatto» disse «ma credo che vi farà piacere dare un’occhiata alla nostra nave. Dopotutto, nei vostri romanzi fate spesso ricorso alla descrizione particolareggiata.»

Durante le due ore che seguirono, svolazzarono per il labirinto di corridoi che intersecavano in ogni senso come arterie il corpo sferico dell’Ares.

Poiché la forma della nave era sferica, la sua superficie, come quella della Terra, era stata suddivisa secondo meridiani e paralleli, cosicché esistevano utili punti di riferimento geografici per muoversi al suo interno. Andare verso nord significava dirigersi alla cabina di comando e al reparto equipaggio. Un viaggio all’Equatore indicava una visita o alla grande sala da pranzo che occupava quasi tutto il piano centrale dell’astronave, oppure al ponte d’osservazione che correva tutto attorno alla nave. L’emisfero meridionale era riservato quasi esclusivamente al serbatoio del carburante, oltre che ai ripostigli per l’immagazzinaggio di macchinario vario. Adesso che aveva cessato di servirsi dei suoi motori, l’Ares era stata fatta girare nello spazio in modo che l’emisfero settentrionale si trovasse in perpetua luce, e quello meridionale, disabitato, in perpetua oscurità. Esattamente al Polo Sud c’era un boccaporto di metallo che recava una serie di sigilli ufficiali e il seguente cartello: Da aprirsi soltanto per ordine espresso del capitano o del suo facente funzioni. Dietro quel boccaporto si stendeva il lungo e stretto tubo che collegava il corpo centrale della nave con la sfera più piccola, lontana un centinaio di metri, contenente l’impianto di energia e i complessi di propulsione. Gibson si chiese che funzione avesse quel portello se nessuno poteva mai servirsene, ma poi si disse che doveva pur esserci qualche mezzo per permettere agli automi addetti alla manutenzione e dipendenti dalla commissione per l’energia atomica di raggiungere il loro posto di lavoro.

Fatto abbastanza curioso, Gibson fu impressionato non tanto dalle meraviglie tecniche e scientifiche dell’astronove, che d’altronde aveva più o meno previste, quanto dagli alloggiamenti vuoti della sezione passeggeri, una specie di alveare di cabine, vicinissime le une alle altre, che occupavano quasi tutta la zona temperata settentrionale.

Quando rientrò finalmente nella propria cabina, Gibson era esausto sia fisicamente sia mentalmente. Norden era stato una guida anche troppo pignola.

Era disteso nella cuccetta, intento ad analizzare le proprie impressioni, quando sentì bussare discretamente alla porta.

«Chi è?»

«Jim… Jim Spencer, signor Gibson. C’è un radiogramma per voi.»

Il messaggio era breve e conteneva una sola parola superflua, la penultima:

"New Yorker, Revue des Quatre Mondes, Life Interplanetary vogliono pezzo venticinquemila battute ciascuna. Prego telegrafare domenica prossima. Affettuosità. Ruth."

Gibson sospirò Aveva lasciato la Terra talmente in fretta che non aveva neppure avuto il tempo per consultarsi con la sua agente, Ruth Goldstein, eccettuata un’affrettata conversazione telefonica da un capo all’altro del globo. Però si era espresso chiaramente: per quindici giorni almeno voleva essere lasciato in pace.

Afferrò il taccuino a fogli staccabili e mentre Jimmy teneva ostentatamente gli occhi fissi altrove, scribacchiò in fretta: "Spiacente. Diritti esclusivi già promessi custode porci et intenditore pollame Sud Alabama. D’ora in poi invierò notizie quando accomodami. Quando deciderai avvelenare Harry? Affettuosità. Mart".

Harry era la metà letteraria e antiaffarista della Goldstein e C., ed era felicemente sposato con Ruth da oltre vent’anni. Da circa quindici, Gibson non smetteva un istante di ricordare a entrambi che stavano affondando in un pantano dal quale era sempre più difficile uscire.

Jimmy Spencer scomparve con l’insolito messaggio, lasciando Gibson con i suoi pensieri. Certo si sarebbe messo presto al lavoro, ma intanto aveva seppellito la sua macchina da scrivere sotto il resto del bagaglio.

Le sue vacanze durarono una settimana intera, in capo alla quale la Terra era divenuta un semplice punto molto luminoso che ben presto si sarebbe perso nel bagliore del Sole. Gibson stentava a credere di aver conosciuto fino a poco tempo prima un’esistenza diversa da quella che conduceva attualmente nel piccolo chiuso mondo dell’Ares, il cui equipaggio ormai non era più composto da Norden, Hilton, Mackay, Bradley, Scott, ma da John, Fred, Angus, Owem, Bob.