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Gibson era seduto sul ponte d’osservazione, intento a scoprire quante Pleiadi sarebbe riuscito a individuare a occhio nudo, quando un minuscolo proiettile gli sfiorò l’orecchio sibilando e andò ad appiccicarsi con un ciac al vetro del finestrino, dove rimase attaccato vibrando come una freccia. Al primo momento, a Gibson era parsa veramente una freccia, e per un attimo lo scrittore si era chiesto se per caso i Cherokee non fossero tornati sul sentiero di guerra. Poi notò che la punta era stata sostituita da un grosso succhione di gomma, mentre dalla base, giusto dietro le piume, si snodava un lungo filo sottile, alla cui estremità c’era il dottor Robert Scott, laureato in medicina, che vi arrancava dietro simile a un grosso ragno che sta risalendo il suo nastro di bava.

Gibson stava ancora cercando un commento sarcastico, quando, come al solito, Scott lo prevenne.

«Non ti pare ingegnoso?» chiese. «Ha un’autonomia di venti metri, pesa soltanto mezzo chilo, e non appena ritorno sulla Terra lo faccio brevettare.»

«A che cosa serve?» chiese Gibson in tono rassegnato.

«Ma come, non capisci? Immagina di spostarti da un punto all’altro nell’interno di una stazione spaziale dove non esiste gravità rotazionale. Basta lanciare questo aggeggio su una qualsiasi superficie piatta prossima al tuo luogo di destinazione e poi avvolgere la funicella. Finché non avrai liberato il succhione potrai contare su un’ancora perfetta.»

«Ma che cosa c’è che non va nel sistema solito di muoversi?»

«Quando sarai stato nello spazio tutto il tempo che ci sono stato io, ti accorgerai quante siano le cose che non vanno» rispose Scott in tono saputo. «Su una nave come questa ci sono dappertutto maniglie alle quali ti puoi attaccare. Ma immagina di andare verso una parete liscia all’altro capo della tua stanza, e di lanciarti in aria dal punto in cui ti trovi. Cosa succede? Be’, dovrai pure interrompere in qualche modo la caduta, con le mani, di solito, se non vuoi continuare a girare come una trottola. A proposito, sai qual è il disturbo più comune che un medico è costretto a curare a bordo di una nave interspaziale? Le slogature dei polsi. È naturale! Comunque, anche se raggiungi la mèta finisci regolarmente col rimbalzare all’indietro, a meno che tu non riesca ad aggrapparti a qualcosa. Del resto ti può persino capitare di rimanere bloccato a mezz’aria. A me è successo, una volta, nella stazione spaziale numero tre, in uno dei grandi capannoni. Il muro più vicino era distante quindici metri e non c’era verso che mi riuscisse di arrivarci.»

«Perché non ti sei fatto strada sputando nella direzione voluta?» chiese Gibson in tono serio. «Dicono che sia il sistema migliore per uscire da un impiccio come quello che mi hai descritto adesso.»

«Prova e poi mi saprai dire. In ogni caso non è un sistema igienico. Lo sai che cosa ho dovuto fare? Come al solito indossavo maglietta e calzoncini e avevo calcolato che quei due indumenti influivano per circa un centesimo sul peso della mia massa. Senza quegli indumenti avrei potuto raggiungere il muro opposto in un minuto. Perciò li ho tolti.»

«E ce l’hai fatta?»

«Sì. Ma quel giorno il direttore stava facendo visitare la stazione a sua moglie, quindi adesso capisci perché mi sono ridotto, per guadagnarmi da vivere, a scorrazzare su questa vecchia carretta trascinandomi di portello in portello. Fortuna che non mi hanno relegato in qualche sudicia ambulanza di astroporto.»

«Ho l’impressione che tu abbia sbagliato mestiere» disse Gibson. «A proposito, cosa fa Owem? È riuscito a mettersi in contatto col missile o non ancora?»

«No, e mi sembra che non ne abbia affatto l’intenzione. Mac dice che passerà a circa centoquarantacinquemila chilometri di distanza, in ogni modo fuori portata. È un vero peccato. Ci vorranno mesi prima che un’altra nave parta per Marte, e questa è appunto la ragione per la quale avevano tanta fretta di raggiungerci.»

«Owem è un tipo strano, vero?» osservò Gibson senza un motivo particolare.

«Quando lo si conosce bene si capisce che non è così male come sembra in principio. Non è affatto vero quello che dicono, cioè che abbia avvelenato la moglie. È lei che si è uccisa di sua spontanea volontà ingerendo un narcotico» rispose Scott tutto soddisfatto.

Owem Bradley, dottore in fisica, specialista in scienza elettronica, eccetera, eccetera, era profondamente annoiato dell’esistenza. Come chiunque altro a bordo dell’Ares era seriamente appassionato del suo lavoro, anche se ci scherzava sopra. Da dodici ore si era chiuso nella cabina comunicazioni, senza uscirne mai se non per pochi secondi, nella speranza che l’onda portante continua del razzo si spezzasse nella giusta modulazione rivelando che le sue segnalazioni erano state captate, e il razzo cominciava a virare in direzione dell’Ares. Ma sino a quel momento non era successo niente, e non c’era motivo di sperare che le cose potessero cambiare.

Bradley compose il numero dell’ufficio di astronavigazione sul quadro d’intercomunicazione della nave, e Mackay rispose quasi subito.

«Quali sono le ultime notizie, Mac?»

«Non credo che si avvicinerà più di così. Ho corretto la posizione il più possibile e ho ridotto al massimo gli errori. In questo momento si trova a centocinquantamila chilometri e viaggia lungo una rotta pressoché parallela. Nel punto più prossimo sarà a centoquarantaquattromila, fra tre ore circa. Perciò, io ho perso la scommessa, e credo che tutti quanti perderemo il missile.»

«Lo credo anch’io» borbottò Bradley. «Però finché c’è vita c’è speranza. Io vado giù all’officina.»

«A fare cosa?»

«A fabbricare un razzo monoposto per correre dietro a quell’aggeggio infernale. Per un’impresa simile, in un racconto di Martin ci vorrebbe meno di mezz’ora! Su, vieni ad aiutarmi.»

Mackay si trovava più vicino di Bradley all’Equatore della nave, di conseguenza era giunto per primo al Polo Sud e stava aspettando con curiosità quando l’altro lo raggiunse tutto avvolto di rotoli di cavo coassiale prelevati nel magazzino. In poche parole Bradley espose il suo piano.

«Avrei dovuto muovermi prima, ma io sono di quelli che seguitano a sperare sino all’ultimo che le cose si risolvano da sole. Il guaio del nostro radiofaro è che irradia in tutte le direzioni… il che è giusto, naturalmente, perché noi non sappiamo mai da dove può provenire un missile. Perciò ho intenzione di costruire un equipaggiamento a raggi e di puntare tutta l’energia di cui dispongo sul nostro fuggitivo.»

Così dicendo mostrò lo schizzo sommario di una semplice antenna Yagi e in poche parole spiegò a Mackay il suo progetto.

«Questo aggeggio è il radiatore effettivo: gli altri sono congegni direzionali e riflettori. È un dispositivo antiquato, ma facile da fabbricare, e dovrebbe riuscire allo scopo. Chiama Hilton, se hai bisogno di aiuto. Quanto tempo ti ci vorrà?»

Mackay, che per essere uno scienziato di quella fatta possedeva un’abilità manuale incredibile, diede un’occhiata al disegno e al piccolo mucchio di materiale che Bradley aveva raccolto.

«Un’ora circa» rispose, già all’opera. «Tu dove vai adesso?»

«Devo salire sull’ossatura e disinnestare il filo del trasmettitore del faro. Porta l’equipaggiamento davanti al compartimento stagno appena sei pronto, d’accordo?»

Mackay se n’intendeva poco di radio, ma aveva capito con sufficiente chiarezza quello che Bradley intendeva fare. In quel momento il minuscolo radiofaro dell’Ares stava emanando la sua energia tutt’attorno; Bradley, invece, voleva dirigerne con mira precisa tutta la forza verso il missile in fuga.