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—  Accenderò una luce, e le vedremo. Forse potrò rinsaldarle con la parola giusta. Tutto bene, piccola.

Lei pensò che era strano; l’uomo la chiamava come l’aveva sempre chiamata Manan. E quando lui accese un fioco barlume sulla sommità del bastone, come il chiarore del legno putrido o di una stella dietro la nebbia, e si avventurò sulla stretta cengia a fianco dell’abisso nero, lei vide la massa scura che giganteggiava nell’oscurità più lontana, oltre l’uomo, e comprese che era Manan. Ma si sentì la voce strozzata nella gola come in un cappio, e non riuscì a gridare.

Quando Manan allungò le braccia per spingerlo giù, nell’abisso, Ged alzò gli occhi, lo vide, e con un grido di sorpresa o di rabbia gli sferrò un colpo di bastone. Al grido, la luce sfolgorò bianca e abbacinante in faccia all’eunuco. Manan alzò una delle grosse mani per ripararsi il volto, si avventò disperatamente per afferrare Ged, lo mancò e cadde.

Non lanciò neppure un grido, mentre precipitava. Neppure un suono salì dal nero abisso, neppure il suono del corpo che toccava il fondo, il suono della sua morte, nulla. Aggrappandosi precariamente all’orlo, inginocchiati, Ged e Tenar non si mossero: ascoltarono, e non udirono nulla.

La luce era un grigio fuoco fatuo, appena visibile.

—  Vieni! — disse Ged, tendendo la mano; lei l’afferrò, e in tre passi arditi lui la condusse oltre il precipizio. Spense la luce. Lei riprese a precederlo per guidarlo. Era stordita, e non pensava a nulla. Soltanto dopo un poco si chiese: A destra o a sinistra?

Si fermò.

Arrestandosi qualche passo più indietro, lui chiese, sottovoce: — Cosa c’è?

—  Mi sono perduta. Fa’ luce.

—  Perduta?

—  Ho… ho perso il conto delle svolte.

—  Il conto l’ho tenuto io — disse Ged, facendosi un poco più vicino. — Una svolta a sinistra, dopo l’abisso; poi una a destra, e ancora una a destra.

—  Allora la prossima sarà di nuovo a destra — disse automaticamente Tenar, ma non si mosse. — Fa’ luce.

—  La luce non ci mostrerà la via, Tenar.

—  Nulla ce la mostrerà. È perduta. Siamo perduti.

Il silenzio di morte si chiuse sul suo mormorio, l’assorbì.

Sentiva il movimento e il calore dell’altro, vicino a lei nella fredda tenebra. Ged cercò la sua mano e la strinse. — Continua, Tenar. La prossima svolta è a destra.

—  Fa’ luce — lo supplicò lei. — Le gallerie sono così tortuose…

—  Non posso. Non ho forza da sprecare, Tenar, loro sono… Sanno che abbiamo lasciato il Tesoro. Sanno che abbiamo superato l’abisso. Ci stanno cercando: cercano la nostra volontà, il nostro spirito. Per soffocarlo, per divorarlo. È questo che io devo mantenere acceso. Vi impegno tutta la mia forza. Devo oppormi a loro; insieme a te. Col tuo aiuto. Dobbiamo proseguire.

—  Non c’è via d’uscita — disse lei, ma avanzò di un passo. Poi ne mosse un altro, esitante come se sotto i suoi piedi si spalancasse il vuoto nero e cavernoso, il vuoto sotto la terra. La stretta calda e dura della mano di lui le serrava la mano. Avanzarono.

Dopo un tempo che sembrò lunghissimo giunsero alla scala. Non era parsa tanto ripida, prima: i gradini erano poco più di sdrucciolevoli intaccature nella roccia. Ma la salirono, e poi procedettero un po’ più rapidamente perché lei sapeva che dopo la scala il corridoio curvilineo proseguiva per un lungo tratto senza svoltare. Le sue dita, che sfioravano la parete di sinistra, trovarono un varco, un’apertura. — Qui — mormorò; ma lui parve indugiare, come se qualcosa, nei movimenti di Tenar, lo rendesse dubbioso.

—  No — mormorò lei, confusa. — Non è questa; è la prossima svolta a sinistra. Non so. Non ci riesco. Non c’è via d’uscita.

—  Stiamo andando alla Camera Dipinta — disse la voce quieta, nella tenebra. — Come dobbiamo arrivarci?

—  La svolta a sinistra dopo questa.

Tenar proseguì. Percorsero il lungo giro, superando due false piste, fino al passaggio che si diramava verso destra, in direzione della Camera Dipinta.

—  Avanti diritto — bisbigliò lei; adesso era più facile distrincarsi nella tenebra, perché conosceva i passaggi che conducevano alla porta di ferro e ne aveva contato le svolte tanto spesso; lo strano peso che le opprimeva la mente non poteva confonderla, se non cercava di pensare. Ma continuavano ad avvicinarsi a ciò che l’opprimeva e la schiacciava; e si sentiva le gambe così stanche e appesantite che un paio di volte gemette per lo sforzo di muoverle. E accanto a lei l’uomo respirava profondamente, e tratteneva il fiato, più e più volte, come se compisse uno sforzo enorme con tutte le energie che aveva in corpo. Talvolta la sua voce prorompeva, smorzata e tagliente, in una parola, o in un frammento di parola. Giunsero finalmente alla porta di ferro; e con un terrore improvviso, Tenar tese la mano.

La porta era aperta.

—  Presto! — disse lei, trascinando dietro di sé il compagno. Poi, dall’altra parte, si fermò.

—  Perché era aperta? — chiese.

—  Perché i tuoi Padroni hanno bisogno delle tue mani per chiuderla.

—  Stiamo per giungere a… — La voce le mancò.

—  Al centro della tenebra. Lo so. Comunque siamo usciti dal labirinto. Quali uscite dalla cripta ci sono?

—  Una soltanto. La porta da cui sei entrato tu non si apre dall’interno. Il percorso attraversa la caverna e segue altri passaggi fino a una botola dietro il trono. Nel palazzo del trono.

—  Allora dobbiamo andare da quella parte.

—  Ma là c’è lei — bisbigliò la ragazza. — Là nella cripta. Nella caverna. Sta scavando la tomba vuota. Non posso passarle accanto, oh, non posso passarle accanto di nuovo!

—  Ormai se ne sarà andata.

—  Non posso andare là.

—  Tenar, in questo momento io sto reggendo il soffitto sopra le nostre teste. Impedisco alle pareti di crollarci addosso, al pavimento di spalancarsi sotto i nostri piedi. Continuo a farlo dal momento in cui abbiamo superato l’abisso dove attendeva il tuo servitore. Se io posso tenere a bada il terremoto, tu hai paura d’incontrare un’anima umana insieme a me? Fidati di me, come io mi sono fidato di te! Vieni, adesso.

Proseguirono. L’interminabile galleria si allargò. Sentirono l’aria più vasta, la tenebra che si schiudeva. Erano entrati nella grande caverna, sotto le Pietre Tombali.

Incominciarono ad aggirarla, tenendosi rasente alla parete di destra. Tenar aveva percorso solo pochi passi quando si fermò. — Cos’è? — mormorò, e la voce superò appena le sue labbra. C’era un rumore nella morta, immensa, nera bolla d’aria: un tremore, un suono che si udiva nel sangue, si sentiva nelle ossa. Le pareti scavate dal tempo vibravano, vibravano sotto le sue dita.

—  Va’ avanti — disse la voce dell’uomo, secca e forzata. — Affrettati, Tenar.

E mentre avanzava vacillando, lei gridava nella mente, che era tenebrosa e scossa come la cripta sotterranea: — Perdonatemi. Oh miei Padroni, oh Senza Nome, oh antichissimi, perdonatemi, perdonatemi!

Non ebbe risposta. Non aveva mai avuto risposta.

Raggiunsero il corridoio sotto il Palazzo, salirono la scala, pervennero agli ultimi gradini e alla botola. Era chiusa, come lei la lasciava sempre. Premette la molla che l’apriva. Non si aprì.

—  È rotta — disse. — È bloccata.

Ged le passò accanto e premette con le spalle contro la botola. La botola non si mosse.

—  Non è chiusa a chiave: è bloccata da qualcosa di molto pesante.

—  Puoi aprirla?

—  Forse. Credo che lei stia aspettando lì fuori. Ha qualche uomo con sé?

—  Duby e Uahto, forse altri guardiani: gli uomini non possono entrare…