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C’erano parecchi rami più grossi, sparsi sotto gli alberi, e Tenar li raccolse. Scavò una buca in un angolo, tra i sassi affondati nella terra, e preparò il fuoco accendendolo poi con la selce e l’acciarino. Le foglie di salvia e i fuscelli s’infiammarono subito. I rami secchi fiorirono in vampe rosate, profumate di resina. Ormai si era fatto buio, intorno al fuoco, e le stelle si riaffacciavano nell’immane cielo.

Il crepitio delle fiamme destò il dormiente. Si sollevò a sedere, stropicciandosi il volto impolverato; poi si alzò, rigido, e si avvicinò al fuoco.

—  Mi chiedo… — disse con voce assonnata.

—  Lo so, ma non potremmo resistere di notte, qui, senza fuoco. Fa troppo freddo. — Dopo un attimo, Tenar aggiunse: — A meno che tu conosca qualche magia che ci dia calore o che nasconda le fiamme…

Lui si sedette accanto al fuoco, quasi toccandolo con i piedi, cingendosi le ginocchia con le braccia. — Brrr - fece. — Un fuoco è meglio della magia. Ho gettato una piccola illusione intorno a noi: se passasse qualcuno, gli sembreremmo fuscelli e pietre. Tu cosa dici? Che c’inseguiranno?

—  Lo temo, eppure non credo che lo faranno. Nessuno, tranne Kossil, sapeva che tu eri là. Kossil e Manan. E sono morti entrambi. Sicuramente lei era nel palazzo, quando è crollato. Ci stava aspettando alla botola. E tutti gli altri penseranno che io fossi nel palazzo o nelle tombe, e che sia rimasta schiacciata durante il terremoto. — Anche lei si cinse le ginocchia con le braccia, e rabbrividì. — Spero che gli altri edifici non siano crollati. Era difficile vedere qualcosa dalla collina: c’era troppa polvere. Senza dubbio i templi e le case non sono caduti tutti quanti, per esempio la Casa Grande dove dormono le ragazze.

—  Non credo. Le tombe hanno divorato se stesse. Ho scorto il tetto d’oro di un tempio, quando ci siamo allontanati: non era caduto. E c’erano figure, più in basso, sulle pendici della collina: gente che correva.

—  Cosa diranno, cosa penseranno… Povera Penthe! Adesso potrebbe diventare somma sacerdotessa del re-dio. Eppure aveva sempre desiderato fuggire. Lei. Non io. Forse adesso fuggirà. — Tenar sorrise. C’era in lei una gioia che nessun pensiero e nessuna paura poteva offuscare, la stessa gioia sicura che era sorta in lei quando si era risvegliata nella luce aurea. Aprì il sacco ed estrasse due pagnotte appiattite; ne porse una a Ged, attraverso il fuoco, e addentò l’altra. Il pane era duro, e acido, e squisito.

Per qualche minuto mangiarono, in silenzio.

—  Siamo molto lontani dal mare?

—  Ho impiegato due giorni e due notti, per arrivare al Luogo. Impiegheremo un poco di più, per raggiungerlo.

—  Io sono forte — disse Tenar.

—  Lo sei. E coraggiosa. Ma il tuo compagno è stanco — replicò Ged con un sorriso. — E non abbiamo molto pane.

—  Troveremo l’acqua?

—  Domani, tra le montagne.

—  Potresti procurarci qualcosa da mangiare? — chiese lei, vagamente, con timidezza.

—  Per andare a caccia occorrono le armi e il tempo.

—  Voglio dire… lo sai, con gli incantesimi.

—  Posso chiamare un coniglio — disse lui, attizzando il fuoco con un nodoso ramoscello di ginepro. — I conigli stanno uscendo dalle tane tutt’intorno a noi, adesso. La sera è il loro momento. Potrei chiamarne uno per nome, e verrebbe. Ma tu cattureresti e scuoieresti e arrostiresti un coniglio che è venuto a farti visita? Forse se stessi per morire di fame. Ma sarebbe un abuso di fiducia, credo.

—  Sì. Pensavo: forse potresti…

—  Evocare una cena — disse lui. — Oh, potrei farlo. Su piatti d’oro, se tu volessi. Ma sarebbe un’illusione, e quando mangi illusioni finisci con l’avere più fame di prima. È nutriente, più o meno, quanto mangiare parole. — Tenar vide i candidi denti di Ged lampeggiare per un momento nella luce del fuoco.

—  La tua magia è strana — osservò, con la lieve dignità che si conveniva tra pari, una sacerdotessa che si rivolgeva a un mago. — Sembra utile solo nelle grandi cose.

Lui aggiunse altra legna al fuoco, che divampò in un crepitio di scintille odorose di ginepro.

—  Davvero puoi chiamare un coniglio? — chiese all’improvviso Tenar.

—  Vuoi che lo faccia?

Lei annuì.

Ged si distolse dal fuoco e disse sommessamente nella vasta oscurità rischiarata dalle stelle: — Kebbo… Oh kebbo…

Silenzio. Non un suono. Non un movimento. Solo, al limitare della guizzante luce del fuoco, un occhio rotondo, come un ciottolo di giaietto, vicinissimo al suolo. La curva di un dorso peloso; un orecchio, lungo, eretto nell’allarme.

Ged parlò di nuovo. L’orecchio si scosse, e dall’ombra ne apparve un altro; poi, mentre la bestiola si voltava, Tenar la vide interamente per un attimo, vide il piccolo balzo agile e morbido mentre tornava tranquilla nella notte.

—  Ah! — disse, esalando il respiro che aveva trattenuto. — È meraviglioso. — Poi chiese: — Potrei farlo anch’io?

—  Ecco…

—  È un segreto — disse Tenar, ritrovando la sua dignità.

—  Il nome del coniglio è un segreto. O almeno, non si dovrebbe usarlo con leggerezza, senza una ragione. Ma il potere di chiamare non è un segreto, vedi, ma piuttosto un dono, o un mistero.

—  Oh — disse lei. — E tu lo possiedi. Lo so! — C’era passione nella sua voce, non celata dalla finta ironia. Lui la guardò e non rispose.

Era ancora esausto dalla lotta contro i Senza Nome: aveva esaurito le forze nelle gallerie squassate dal terremoto. Sebbene avesse vinto, non gli restava l’energia per esultare. Ben presto si raggomitolò di nuovo, vicinissimo al fuoco, e si riaddormentò.

Tenar rimase seduta ad alimentare le fiamme e a guardare il fulgore delle costellazioni invernali, da orizzonte a orizzonte, finché si assopì, stordita dallo splendore e dal silenzio.

Si svegliarono entrambi. Il fuoco si era spento. Le stelle che lei aveva osservato tanto a lungo erano lontane, oltre le montagne, e a oriente ne erano sorte altre. Fu il freddo a destarli, il freddo asciutto della notte del deserto, il vento simile a una lama di ghiaccio. Un velo di nubi stava coprendo il cielo, da sudovest.

Il legno che avevano raccolto era quasi finito. — Andiamo — disse Ged. — Non manca molto all’alba. — Gli battevano i denti, così forte che Tenar faticava a capirlo. Si avviarono, salendo il lungo pendio verso occidente. Gli arbusti e le rocce spiccavano neri nella luce delle stelle, e camminare era facile come durante il giorno. Dopo un poco, il movimento li riscaldò: non rabbrividivano più, non erano costretti a procedere chini. Al levar del sole erano giunti alla prima altura delle montagne occidentali, che fino a quel momento avevano circondato l’esistenza di Tenar.

Si fermarono in un boschetto, dove le frementi foglie dorate pendevano ancora dai rami degli alberi. Ged le disse che erano abeti; lei non conosceva altri alberi che i ginepri, e i pioppi malaticci alle sorgenti del fiume, e i quaranta meli nel frutteto del Luogo. Un uccellino, tra gli abeti, pigolava «dii, dii», con una vocina sottile. Sotto gli alberi scorreva un ruscello, stretto ma poderoso, che gridava forzuto tra le rocce e le cascatelle, troppo rapido per gelare. Tenar ne aveva quasi paura. Era abituata al deserto, dove tutto è silenzioso e si muove lentamente: fiumi torpidi, ombre di nuvole, avvoltoi che volano in cerchio.