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Si piegò, e con un gesto fulmineo gli sfilò dalla cintura il pugnaletto d’acciaio che gli aveva dato. Ged non si mosse, come una statua derubata.

La lama era lunga soltanto una spanna, e affilata da una parte: era la miniatura di un coltello sacrificale. Faceva parte del corredo della Sacerdotessa delle Tombe, che doveva portarlo insieme alle chiavi e alla cintura di crine di cavallo e ad altri oggetti, alcuni dei quali avevano funzioni sconosciute. Tenar non aveva mai usato il pugnale; solo, in una delle danze eseguite al novilunio, davanti al trono, lo lanciava in aria e l’afferrava al volo. Lei aveva amato quella danza: era scatenata, senza altra musica che il tambureggiare dei suoi piedi. Si era tagliata spesso le dita, quando si era esercitata, finché aveva imparato ad afferrare sempre l’impugnatura del coltello. La minuscola lama era abbastanza affilata per tagliare un dito fino all’osso, o per recidere le arterie di una gola. Lei avrebbe servito ancora i suoi Padroni, sebbene l’avessero tradita e dimenticata. Avrebbero guidato la sua mano nell’ultimo atto della tenebra. Avrebbero accettato il sacrificio.

Si voltò verso l’uomo, tenendo il coltello nella destra, dietro il fianco. In quel momento, Ged alzò lentamente la testa e la guardò. Aveva l’espressione di chi ritorna da molto lontano, di chi ha visto cose terribili. Il suo volto era calmo, ma pieno di sofferenza. Quando alzò lo sguardo e parve vederla sempre più chiaramente, la sua espressione si schiarì. Infine disse «Tenar», come in un saluto, e levò la mano a sfiorare la fascia d’argento traforato e scolpito che lei portava al polso. Lo fece come se volesse rassicurarsi, fiduciosamente. Non badò al pugnale nella mano di Tenar. Spostò lo sguardo sulle onde, che si sollevavano contro le rocce sottostanti, e disse con uno sforzo: — È ora… è ora di andare.

Al suono di quella voce, il furore abbandonò Tenar. Ebbe paura.

—  Te li lascerai indietro. Adesso sei libera — disse Ged, alzandosi con improvviso vigore. Si stiracchiò, e si assestò il mantello. — Dammi una mano a spingere la barca. È montata sui tronchi, per farla rotolare. Ecco, spingi… ancora… Basta così. E adesso tienti pronta a balzare a bordo, quando ti dirò «salta». È un punto difficile per lanciarla… Ancora. Ecco! Salta! — E balzando dietro di lei, l’afferrò mentre Tenar perdeva l’equilibrio, la fece sedere sul fondo, si puntellò a gambe larghe, prese i remi e fece sfrecciare l’imbarcazione fuori, su un’onda di riflusso, sopra le rocce, oltre il promontorio ruggente e schiumante, verso il mare aperto.

Ritirò i remi quando furono lontani dagli scogli, e alzò l’albero. La barca sembrava piccolissima, adesso che lei vi stava dentro e il mare era all’esterno.

Ged issò la vela. Tutto aveva l’aria di essere stato usato a lungo, faticosamente, sebbene la vela rossocupa fosse rattoppata con grande cura e la barca fosse pulita e ben tenuta. Erano come il loro padrone: erano andate lontano, e la vita non le aveva trattate con dolcezza.

—  Ora — disse Ged, — ora siamo partiti, ora siamo liberi, siamo andati, Tenar. Lo senti anche tu?

Lei lo sentiva. Una mano tenebrosa aveva allentato la stretta che aveva serrato il suo cuore per tutta la vita. Ma non provava più gioia, come l’aveva provata invece tra le montagne. Abbassò la testa tra le braccia e pianse, e le sue guance erano umide e salmastre. Piangeva per lo spreco dei suoi anni, asserviti a un male inutile. Piangeva di dolore, perché era libera.

Aveva incominciato ad apprendere il peso della libertà. La libertà è un fardello oneroso, un grande e strano fardello per lo spirito che se l’addossa. Non è agevole. Non è un dono ma una scelta, e la scelta può essere dura. La strada sale, verso la luce: ma il viandante oberato può anche non raggiungerla mai.

Ged la lasciò piangere, non le disse una parola di conforto; e non parlò neppure quando lei smise di piangere e restò seduta a guardare la bassa terra azzurra di Atuan. Il volto di lui era severo e intento, come se fosse solo: badava alla vela e al timone, pronto e taciturno, e guardava sempre avanti.

Nel pomeriggio tese il braccio a destra del sole, verso il quale stavano navigando. — Quella è Karego-At — disse. E Tenar, seguendo il suo gesto, vide la lontana massa delle colline simili a nuvole, la grande isola del re-dio. Atuan era scomparsa, alle loro spalle. Lei si sentiva il cuore pesante. Il sole le batteva negli occhi come un martello d’oro.

La cena fu pane secco, e pesce affumicato, che per Tenar aveva un sapore ripugnante, e l’acqua del barile che Ged aveva riempito a un ruscello del Capo delle Nubi la sera prima. La notte invernale scese rapida e fredda sul mare. Lontano, verso nord, videro per qualche tempo un brillio di luci, il giallo fuoco dei paesi sulla riva di Karego-At. Poi le luci svanirono nella foschia che salì dall’oceano, e loro rimasero soli nella notte senza stelle, sulle acque profonde.

Tenar si era raggomitolata a poppa; Ged si sdraiò a prua, col bariletto d’acqua per cuscino. La barca procedeva, e le lunghe onde schiaffeggiavano lievemente le fiancate sebbene il vento fosse soltanto un alito fioco da sud. Là, lontano dalle spiagge rocciose, anche il mare era silente: solo quando sfiorava la barca mormorava un poco.

—  Se il vento spira da sud — chiese Tenar, bisbigliando perché bisbigliava il mare, — la barca non veleggia verso nord?

—  Sì, se non bordeggiamo. Ma io ho messo il vento magico nella vela, verso occidente. Domattina dovremmo essere usciti dalle acque di Kargad. E allora lascerò che vada col vento del mondo.

—  Si guida da sola?

—  Sì — rispose serio Ged. — Se le do gli ordini appropriati. Non ne occorrono molti. Ha navigato nel mare aperto, oltre l’isola più lontana dello stretto orientale; è stata a Selidor, dove morì Erreth-Akbe, nell’estremo occidente. È una barca saggia ed esperta, la mia Vistacuta. Puoi fidarti di lei.

Nella barca mossa dalla magia sopra i grandi abissi, la ragazza giaceva guardando l’oscurità. Per tutta la sua vita aveva guardato l’oscurità: ma la notte sull’oceano era un’oscurità più grande. Era senza fine. Non c’era tetto. Proseguiva oltre le stelle. Era esistita prima della vita, e avrebbe continuato a esistere dopo. Trascendeva anche il male.

Nell’oscurità, Tenar parlò. — L’isoletta dove ti hanno donato il talismano è in questo mare?

—  Sì — rispose la voce di lui, dall’oscurità. — Da qualche parte. Verso sud, forse. Non saprei ritrovarla.

—  Io so chi era, la vecchia che ti ha dato l’anello.

—  Lo sai?

—  Mi raccontarono la storia. Faceva parte della conoscenza della Prima Sacerdotessa. Me la raccontò Thar, prima quando era presente Kossil, e poi, più ampiamente, quando fummo sole: fu l’ultima volta che mi parlò, prima di morire. In Hupun c’era una nobile casata, che lottò contro l’ascesa al potere dei sommi sacerdoti di Awabath. Il fondatore della casa era il re Thoreg, e fra i tesori che lasciò ai discendenti c’era la metà dell’anello, donatagli da Erreth-Akbe.

—  Così si narra nelle Gesta di Erreth-Akbe. Dice… nella tua lingua dice: «Quando l’anello si spezzò, metà rimase nella mano del sommo sacerdote Intahin e metà nella mano dell’eroe. E il sommo sacerdote inviò la metà al Senza Nome, all’Antico della Terra in Atuan, e così andò nella tenebra, nei luoghi perduti. Ma Erreth-Akbe donò la sua metà alla vergine Tiarath, figlia del saggio re, dicendo: "Che rimanga nella luce, nella dote della fanciulla, rimanga in questa terra fino a quando potrà ricongiungersi con l’altra metà". Così parlò l’eroe prima di far vela verso occidente».