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—  Tutto bene adesso, piccola?

Lei annuì, si voltò, ed entrò nella casa buia.

I PRIGIONIERI

I passi di Kossil risuonarono lungo il corridoio della Casa Piccola, lenti e decisi. L’alta figura pesante riempì il vano della porta: parve rimpicciolire quando la sacerdotessa s’inchinò piegando un ginocchio sul pavimento, crebbe di nuovo quando si rialzò in tutta la sua statura.

—  Padrona.

—  Che c’è, Kossil?

—  Finora mi è stato permesso di occuparmi di certe cose riguardanti il dominio dei Senza Nome. Se così ti piace, è ormai tempo che tu apprenda, e veda, e ti addossi queste cose, che non hai ancora rammentato nella vita attuale.

La ragazza era seduta nella sua stanza priva di finestre, come se meditasse; ma in realtà non faceva nulla, e quasi non pensava. Trascorse qualche momento prima che l’espressione cupa e altezzosa del suo volto cambiasse. Tuttavia cambiò, sebbene lei cercasse di dissimularlo. Disse, con una certa timidezza: — Il labirinto?

—  Non entreremo nel labirinto. Ma sarà necessario attraversare la cripta.

Nella voce di Kossil c’era un tono che poteva essere paura, e poteva essere una finzione di paura, voluta per spaventare Arha. La ragazza si alzò, senza fretta, e disse in tono indifferente: — Sta bene. — Ma in cuor suo, mentre seguiva la pesante figura della sacerdotessa del re-dio, esultava: Finalmente! Finalmente! Vedrò finalmente il mio dominio!

Aveva quindici anni. Da un anno era diventata donna e aveva assunto nel contempo i pieni poteri di Unica Sacerdotessa delle Tombe di Atuan, somma tra le somme sacerdotesse delle Terre di Kargad, colei alla quale neppure il re-dio poteva dare ordini. Adesso tutti piegavano il ginocchio davanti a lei, perfino le austere Thar e Kossil. Tutte le parlavano con elaborata deferenza. Ma non era cambiato nulla. Non accadeva nulla. Dopo le cerimonie della sua consacrazione, i giorni avevano ripreso a scorrere come sempre. C’era la lana da filare, la stoffa nera da tessere, il grano da macinare, i riti da compiere; c’erano i Nove Canti da cantare ogni sera, le porte da benedire, le Pietre da aspergere di sangue di capro due volte l’anno, le danze del novilunio da eseguire davanti al trono vuoto. E così era trascorso l’intero anno, esattamente com’erano trascorsi gli altri anni; e nello stesso modo dovevano forse passare tutti gli anni della sua vita?

Qualche volta la noia era così intensa che lei la sentiva come un terrore: l’afferrava alla gola. Non molto tempo prima, era stata costretta a parlarne. Doveva parlare, si era detta, o sarebbe impazzita. E aveva parlato a Manan. L’orgoglio le impediva di confidarsi con le altre ragazze, e la prudenza la tratteneva dal confessarsi con le donne più anziane: Manan invece non era nulla, un vecchio sciocco fedele, e non aveva importanza ciò che gli diceva. E con suo grande stupore, lui aveva avuto una risposta da darle.

—  Molto tempo fa — le disse, — lo sai, piccola, prima che le nostre quattro terre si unissero in un unico impero, prima che un re-dio regnasse su tutti noi, c’erano moltissimi reucci e principi e capi. Erano sempre in dissidio tra loro. E allora venivano qui per risolvere i loro contrasti. Ecco cosa capitava: giungevano dalla nostra terra, Atuan, e da Karego-At, e da Atnini, e perfino da Hur-at-Hur, tutti i capi e i principi, con i loro servitori e i loro eserciti; e domandavano cosa dovevano fare. E allora la sacerdotessa si recava davanti al trono vuoto, e riferiva loro il giudizio dei Senza Nome. Ebbene, questo avveniva tanto tempo fa. Dopo molti anni, i re-sacerdoti divennero signori di tutto Karego-At, e ben presto s’impadronirono di Atuan; e adesso, da quattro o cinque generazioni, i re-dèi regnano sulle Quattro Terre, e le hanno trasformate in un impero. Perciò le cose sono cambiate. Il re-dio può domare i capi indisciplinati e risolvere da sé i dissidi. E poiché è un dio, capisci, non è necessario che consulti spesso i Senza Nome.

Arha tacque, riflettendo. Il tempo non significava molto, lì nel deserto, sotto le Pietre immutabili, quando si conduceva un’esistenza che era sempre stata vissuta nello stesso modo fin dall’inizio del mondo. Lei non era abituata a pensare ai mutamenti, alle cose vecchie che morivano, alle nuove cose che si affermavano. La turbava, vedere la realtà in quella prospettiva. — I poteri del re-dio sono molto inferiori ai poteri di Coloro che io servo — disse, aggrottando la fronte.

—  Senza dubbio… Senza dubbio… Ma questo non puoi andare a dirlo a un dio, mio piccolo favo di miele. E neppure alla sua sacerdotessa.

E Arha, vedendo lo scintillio di quegli occhietti bruni, pensò a Kossil, somma sacerdotessa del re-dio, che lei aveva temuto fin dal giorno in cui era giunta nel Luogo: e comprese ciò che intendeva dire Manan.

—  Ma il re-dio, e la sua gente, stanno trascurando il culto delle Tombe. Non viene mai nessuno.

—  Be’, il re-dio invia qui i prigionieri per i sacrifici. Questo non lo trascura. E non dimentica neppure i doni dovuti ai Senza Nome.

—  I doni! Il suo tempio viene ridipinto ogni anno, ci sono più di cento libbre d’oro sull’altare, e nelle lampade brucia l’essenza di rosa! E guarda il palazzo del trono: falle nel tetto, crepe nella cupola, muri pieni di topi e di gufi e di pipistrelli… Eppure durerà più del re-dio e di tutti i suoi templi e di tutti i re che verranno dopo di lui. Esisteva prima di lui, e quando quelli saranno tutti scomparsi sarà ancora qui. È il centro delle cose.

—  È il centro delle cose.

—  Ci sono grandi ricchezze: Thar me ne parla, qualche volta. Abbastanza per riempire dieci volte il tempio del re-dio. Oro e trofei donati secoli fa, cento generazioni addietro, chissà quando. Sono tutti rinchiusi nelle fosse e nelle copte, sottoterra. Non vogliono ancora condurmi là, mi fanno aspettare e aspettare. Ma io so com’è. Ci sono camere sotto la sala, sotto l’intero Luogo, sotto il punto dove stiamo adesso. C’è un grande meandro di gallerie, un labirinto. È come una grande città buia, sotto la collina. Piena d’oro, e di spade di antichi eroi, e di vecchie corone, e di ossa e di anni e di silenzio.

Arha aveva parlato come in estasi, rapita. Manan la scrutava. La sua faccia pesante non esprimeva mai altro che una solida e prudente mestizia, e adesso era più triste che mai. — Bene, e tu sei la padrona di tutto questo — disse. — Il silenzio e la tenebra.

—  Sì. Ma loro non vogliono mostrarmi nulla: soltanto le camere al pianterreno, dietro il trono. Non mi hanno neppure mostrato gli ingressi dei sotterranei: si limitano a parlottarne, qualche volta. Mi negano il mio dominio! Perché continuano a farmi aspettare?

—  Tu sei giovane. E forse — disse Manan con quella sua roca voce di contralto — forse loro hanno paura, piccola. Non è il loro dominio, dopotutto: è il tuo. Loro sono in pericolo, quando vi penetrano. Non c’è mortale che non tema i Senza Nome.

Arha non disse nulla, ma i suoi occhi lampeggiarono. Ancora una volta, Manan le aveva mostrato un modo nuovo di vedere le cose. Thar e Kossil le erano sempre apparse così formidabili, così fredde, così forti, che non aveva mai immaginato che potessero avere paura. Eppure Manan aveva ragione. Temevano certi luoghi, i poteri di cui lei era parte, i poteri cui apparteneva. Avevano paura di addentrarsi nei luoghi tenebrosi, paura di essere divorate.

E ora, mentre scendevano insieme a Kossil la scalinata della Casa Piccola e il ripido sentiero gradinato verso il palazzo del trono, ricordò quel colloquio con Manan, ed esultò di nuovo. Dovunque la conducessero, qualunque cosa le mostrassero, lei non avrebbe avuto paura. Avrebbe saputo cosa fare.

Kossil, che era un poco più indietro di lei sul sentiero, parlò: — Uno dei doveri della mia padrona, come lei ben sa, è di sacrificare certi prigionieri, criminali di nobile nascita, che col sacrilegio o il tradimento hanno peccato contro il nostro signore il re-dio.