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Decise di tagliare la corda, lasciando i due da soli. Andò a esplorare la zona dove il passaggio sarebbe dovuto apparire. Meglio che lo facesse. Non avevano provviste e a Mat non garbava l’idea di fare cenno a una nave per farsi trasportare per il lungo tragitto fino a Caemlyn.

Era una breve camminata per il prato fino alle sponde dell’Arinelle. Una volta lì, fece un piccolo tumulo per Noal, poi inclinò il cappello verso di esso e si sedette ad aspettare e riflettere.

Moiraine era sana e salva. Lui era sopravvissuto, anche se quella dannata orbita pulsava come non mai. Ancora non era certo se gli Aelfinn e gli Eelfinn avessero qualche controllo su di lui o no, ma era entrato nella loro tana e ne era uscito illeso. O quasi, perlomeno.

Un occhio perso. Cosa avrebbe provocato questo alla sua capacità di combattere? Questo lo preoccupava più di qualunque altra cosa. Si era mostrato forte, ma dentro tremava. Cosa avrebbe pensato Tuon di un marito senza un occhio? Un marito che poteva non essere in grado di difendersi?

Tirò fuori un coltello, facendolo roteare in aria. Poi, per un capriccio, se lo gettò alle spalle senza guardare. Udì un basso stridio, poi si voltò e vide un coniglio accasciato a terra, infilzato dal coltello scagliato casualmente.

Sorrise, poi si voltò di nuovo verso il fiume. Lì notò qualcosa impigliato tra due grosse pietre di fiume lungo la sponda. Era una pentola rovesciata, con un fondo in rame, quasi nuova, solo con un paio di ammaccature ai lati. Doveva essere stata lasciata cadere da un viaggiatore a monte del fiume.

Sì, poteva non essere in grado di valutare la distanza e non vedere bene. Ma la fortuna funzionava comunque meglio quando non stavi guardando.

Il suo sorriso si allargò, poi andò a prendere il coniglio — l’avrebbe scuoiato per cena — e raccolse la pentola dal fiume.

Moiraine avrebbe avuto il suo tè, dopotutto.

Epilogo

E poi

Graendal si affrettò a radunare quello che le serviva dal suo nuovo palazzo. Dalla sua scrivania prese un piccolo angreal che aveva scambiato con Mesaana per delle informazioni. Aveva la forma di un piccolo coltello d’avorio intagliato; aveva perso il suo anello d’oro nell’attacco di al’Thor.

Graendal lo gettò nel suo zaino, poi ghermì un fascio di fogli dal suo letto. Nomi di contatti e spie... tutto quello che era riuscita a ricordarsi di quello che era stato distrutto a Collina di Natrin.

Delle onde si infrangevano contro le rocce lì fuori. Era ancora buio. Erano passati solo pochi istanti da quando il suo ultimo strumento l’aveva delusa e Aybara era sopravvissuto al campo di battaglia. Quello avrebbe dovuto funzionare.

Era nel suo maniero elegante a poche leghe da Ebou Dar. Ora che Semirhage non c’era più, Graendal aveva iniziato a piazzare alcune corde attorno alla nuova, minuta imperatrice. Avrebbe dovuto abbandonare quei piani.

Perrin Aybara era sfuggito. Si sentiva stordita. I suoi piani perfetti erano andati al loro posto, uno dopo l’altro. E poi... lui era sfuggito. Come? La profezia... aveva detto...

Quello sciocco di Isam, pensò Graendal, ficcando i fogli nel suo zaino. E quel Manto Bianco idiota!

Stava sudando. Non avrebbe dovuto sudare.

Gettò alcuni ter’angreal dalla scrivania nello zaino, poi frugò nell’armadio in cerca di qualche cambio di vestiti. Lui poteva trovarla dovunque nel mondo. Ma forse uno dei regni specchio delle Pietre Portale. Sì. Lì le sue connessioni non erano...

Si girò, le braccia piene di seta, e rimase di sasso. Una figura era in piedi nella stanza. Alta, come un pilastro abbigliato in vesti nere. Senza occhi. Labbra sorridenti del colore della morte.

Graendal si gettò in ginocchio, lanciando da parte i vestiti. Del sudore le scese lungo la tempia fin sulla guancia.

«Graendal» disse l’alto Myrddraal. La sua voce era orribile, come l’ultimo sussurro di un uomo morente. «Hai fallito, Graendal. »

Shaidar Haran. Molto male. «Io...» disse lei, umettandosi le labbra secche. Come far sembrare questo una vittoria? «È andato tutto secondo il piano. È soltanto...»

«Conosco il tuo cuore, Graendal. Posso assaporare il tuo terrore

Lei strinse forte gli occhi.

«Mesaana è caduta» sussurrò Shaidar Haran. «Tre Prescelti, distrutti dalle tue azioni. Le strutture dei tuoi piani sono un reticolo di fallimento, una cornice di incompetenza.»

«Io non ho avuto nulla a che fare con la caduta di Mesaana!»

«Nulla? Graendal, l’onirichiodo era lì. Quelle che hanno combattuto assieme a Mesaana hanno detto che hanno cercato di spostarsi, di attirare le Aes Sedai verso un luogo dove potessero far scattare la loro trappola. Non avrebbero dovuto combattere dentro la Torre Bianca. Non sono potute andar via. A causa tua.»

«Isam...»

«Uno strumento affidato a te. Il fallimento è tuo, Graendal.»

Lei si umettò di nuovo le labbra. La sua intera bocca si era seccata. Doveva esserci una via d’uscita. «Ho un piano migliore, più audace. Rimarrai impressionato. Al’Thor mi ritiene morta, perciò posso...»

«No.» Una voce tanto calma, ma così orribile. Graendal si ritrovò a non riuscire a parlare. Qualcosa le aveva sottratto la voce. «No» continuò Shaidar Haran. «Questa opportunità è stata data a qualcun altro. Ma Graendal, tu non sarai dimenticata.»

Lei alzò lo sguardo, provando un impeto di speranza. Quelle labbra morte erano allargate in un sorriso, quello sguardo senza occhi fisso su di lei. Graendal provò un orribile tuffo allo stomaco.

«No,» disse Shaidar Haran «non mi dimenticherò di te, e tu non dimenticherai cosa verrà dopo.»

Graendal sgranò gli occhi, poi urlò quando lui allungò una mano verso di lei.

Il cielo rombava; l’erba attorno a Perrin tremava. Era macchiata di nero, proprio come nel mondo reale. Perfino il sogno del lupo stava morendo.

L’aria era piena di odori che non le appartenevano. Un fuoco che ardeva. Sangue che si seccava. La carne morta di una bestia che lui non riconosceva. Uova che marcivano pensò. No, non sarà così.

Radunò la propria volontà. Quegli odori sarebbero scomparsi Lo fecero, rimpiazzati dalle fragranze dell’estate. Erba, porcospini, maggiolini, muschio, topi, colombe dalle ali azzurre, fringuelli viola. Comparvero, balzando a nuova vita in un cerchio attorno a lui.

Digrignò i denti. La realtà si diffondeva da lui come un’ombra, l’oscurità che scompariva dalle piante. Sopra di lui, le nubi ondeggiarono, poi si separarono. Dal cielo scaturì la luce del sole. Il tuono si placò.

È Hopper vive, pensò Perrin. È così! Posso fiutare il suo manto, sentirlo balzare tra l’erba.

Un lupo apparve davanti a lui, formandosi come dalla nebbia. Argenteo, ingrigito da anni di vita. Perrin fremette nel suo potere. Era reale.

E poi vide gli occhi del lupo. Senza vita.

L’odore divenne stantio e sbagliato.

Perrin stava sudando dallo sforzo di concentrarsi così tanto. Qualcosa dentro di lui si disgregò. Stava venendo nel sogno del lupo con troppa forza; cercare di controllare questo posto in maniera assoluta era come cercare di contenere un lupo in una cassa.

Lanciò un urlo, cadendo in ginocchio. Il nebbioso non-Hopper scomparve in uno sbuffo e le nubi tornarono con uno schianto al loro posto. Il fulmine esplose sopra di lui e le macchie nere inondarono l’erba. Gli odori sbagliati tornarono.

Perrin si inginocchiò, sudore che gli colava dalla fronte, la mano sull’erba pungente marrone e nera. Troppo rigida.